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Derby di Torino: passioni, amicizia e romanzi per Darwin

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Fatemi recuperare, colto da calcistica nostalgia, il derby di Torino: la mia Juve contro il Toro (in Brasile, invece, la disfida di São Paulo, dove sono nato, è tra il mio Palmeiras e il Corinthians). Una stracittadina che, da tempo, ha perso il suo fascino poetico, ma che rimane sempre la sfida tra due filosofie, due culture, due modi, non solo per quanto riguarda il pallone, di agire e pensare. Intuì tutto Giovanni Arpino, il mio maestro di letteratura, che scrisse: “La Juventus è universale, il Torino è un dialetto. Madama è un ‘esperanto’ anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l’immagine della squadra granata è amata per quanto seminato, tanto tempo fa e in ogni luogo d’Italia, i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e sei Maroso”.

Un derby che bruciava di passione e non di odio

Il derby, certo, ha scandito la mia giovinezza: in curva Filadelfia con la bandiera bianconera e il mio fraterno amico Giancarlo, anche con qualche “cugino” granata, perché lo stadio, a quell’epoca, ormai remota, non ribolliva di odio, ma di passioni. E lo sberleffo, per gli sconfitti, durava una sola settimana. Non il sordo rancore imperava. Ricordo, nel 1967, la sfida tra Juve e Toro pochi giorni dopo la morte di Gigi Meroni, la farfalla granata, l’ala destra che sul prato verde dribblava gli avversari e la malinconia, e le sue giocate parevano versi sciolti, ribelli e irresistibili. 4-0 per il Torino, tripletta di Nestor Combin, ex bianconero, e rete di Alberto Carelli, che scese in campo con la maglia numero 7 di Gigi. E poi solo le lacrime, di tutti. Quindi, la prima rete nella stracittadina del mio idolo Pietro Anastasi, quasi allo scadere, 2-1 per la Vecchia Signora.

Gli amici del derby

Durante la mia carriera da cronista ho conosciuto molti calciatori di Juventus e Torino, molti sono tuttora miei amici, come Leo Júnior e Domenico Marocchino. Come Giuliano Terraneo e Claudio Gentile. Il primo fu un portiere elegante, dal caminitiano “baffo circasso”,  che prese il posto di Luciano Castellini, detto “Giaguaro”, l’estremo difensore campione d’Italia nel 1976, in quella compagine superba allenata da Gigi Radice; il secondo si laureò a pieni voti campione del mondo con l’Italia nel 1982, in Spagna, quando fermò prima Maradona e poi Zico, undici stagioni alla Juventus, tra scudetti e coppe, un difensore arcigno, che venne espulso, come ricordò alla trasmissione “Rabona”, condotta dal bravissimo Andrea Vianello su Rai Tre, una sola volta e per doppia ammonizione. Giuliano, da ragazzo, scriveva poesie. Il filosofo Gianni Vattimo, dopo averle lette, ritrovò delle assonanze “alla Maurizio Cucchi”.

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Negli Anni Ottanta, prima di un derby, regalai a Gentile e Terraneo un romanzo che mi aveva colpito, un inno al pacifismo, un urlo contro tutte le guerre, il capolavoro di Erich Maria Remarque: “Niente di nuovo sul fronte occidentale” (edito a quel tempo da Mondadori e ora da Neri Pozza, sempre per la traduzione di Stefano Jacini). I due calciatori rimasero colpiti dalla vicenda prima sentimentale e poi tragica del giovane soldato tedesco Paul Bäumer, morto a pochi giorni dalla fine della Prima Guerra Mondiale in una giornata, sul fronte, di assoluta e assurda calma. Ecco: nei giorni a venire di Juve-Toro, mi piace rispolverare questo piccolo, significativo episodio. Il pallone e la letteratura che si incontrano. E come sarebbe bello vedere, prima di ogni match, i capitani scambiarsi, oltre ai gagliardetti, i libri. E ogni stadio possedere la propria biblioteca…
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