Tante volte, l’unica salvezza è l’autocritica. E, se l’autocritica è chiedere troppo, e del resto mica è esercizio poi così facile, almeno, per non continuare a prendersi in giro e inanellare figure meschine, causate anche da grossolani errori di prospettiva, serve un’autoanalisi quanto più onesta possibile: rendersi conto, insomma, di chi si è, e di dove si è. E, allora, si può anche essere crudi: l’Italia, da qualche tempo ormai, è diventata periferia dell’impero, ancora di più, e più irrimediabilmente, di quanto lo sia stata in precedenza. Lo è come Paese, inutile girarci attorno, e lo è ancora di più nel calcio, che qualcosa racconta anche, appunto, del Paese stesso.
Ritorno al passato che fu
Che cosa? Un movimento calcistico che invecchia, che si crogiola sul blasone e sulle immagini del passato, che si affida alle figurine – Gattuso, Buffon, Zambrotta, Perrotta – di un’epoca che fu, che non sa parlare né tacere – le modalità della scelta dell’esonero di Spalletti e della comunicazione della stessa meritano di diventare il case study di una tesi di laurea, almeno, su come non si comunica – e, quando parla, lo fa solo in maniera ridicolmente propagandistica mostrando, in questo modo, un vuoto pneumatico in termini di idee e visione, non solo del futuro, ma proprio sul presente.
Si badi: questo non è un discorso passatista, ma semplicemente la cruda constatazione di un aspetto evidente, ma sottaciuto, ovvero che l’Italia calcistica non sa evolversi. Avrà pure quattro stelle nel logo federale, sarà anche stata capace di ottenere Europeo 2032 (anzi, solo metà: l’altra metà è della Turchia, in una sinergia coatta che nessuno avrebbe voluto), avrà pure un presidente federale che è il braccio destro del presidente padrone dell’Uefa, ma l’Italia del pallone, al di là di qualche exploit di alcuni club (dunque exploit privati), non tocca più palla.
Lontani dal centro dell’impero
L’Italia oggi non è neppure lontanamente all’altezza di Spagna, Francia, Inghilterra, Brasile e Argentina, per dirne solo cinque. Certo, può anche batterle, può anche vincere – grazie a un allineamento di pianeti che a volte nello sport, semplicemente, concede – un Europeo, però alla resa dei conti la storia degli ultimi quindici anni racconta di una Nazionale che è uscita ai gironi di due Mondiali (Sudafrica 2010, non una vittoria contro Paraguay, Nuova Zelanda e Slovenia, e Brasile 2014, vittoria contro l’Inghilterra e sconfitte con Costa Rica e Uruguay), dagli ultimi due è rimasta fuori, impedita nella qualificazione da Svezia e Macedonia del Nord, poi nell’ultimo Europeo si è qualificata a fatica agli ottavi, per poi uscire con la Svizzera, e qualche settimana fa si è presa un’imbarcata contro la Norvegia che, verosimilmente, la costringerà a un nuovo playoff per tentare la qualificazione ai Mondiali.
Italia con Svizzera, Austria &Co
Ecco: l’Italia del calcio, oggi, è esattamente nella fascia della Svizzera, dell’Austria, della Norvegia, anche un gradino sotto Portogallo, Belgio e Paesi Bassi, per restare alle selezioni europee. Non è questione di ct, ma proprio di movimento, dai dirigenti ai giocatori.
Ora, per capirci: sarà bellissimo vedere Modric in A, ma a settembre avrà 40 anni. Edin Dzeko ne ha 39, De Bruyne 34, e molto probabilmente farà la differenza. Chi guardava sprezzante alla MLS e guarda all’Arabia Saudita come un cimitero di elefanti, farebbe bene a guardare anche a una A che ormai è o un campionato di lancio, o uno da ultimo contratto. Vive di nostalgismo, segue gli influencer, sproloquia di tattica, non libera il talento di chi, i giocatori, sono e dovrebbero essere gli unici protagonisti di questo sport.
Un Paese e un calcio che invecchia (male)
Invecchia, e invecchia male, così come un Paese che non sa guardare al futuro e si affida a vecchie retoriche e chiusure, per le poche opportunità che concede alle generazioni più giovani, per come ha buggerato la generazione di mezzo oggi adulta, per come va in soccorso ai vincitori – che nemmeno più la calcolano in una logica di do ut des – e per come continua a descriversi. È uno stereotipo, e negli stereotipi c’è spesso più di un fondo di realtà, ma a livello geopolitico, così come a quello calcistico, sostanzialmente non la vede mai.
Le quattro stelle di cui sopra valgono la presenza nel G7, ma è solo un distintivo, e queste settimane – e invero gli ultimi tre-quattro anni – segnate da venti di guerra nemmeno troppo lontani hanno evidenziato l’assenza di una linea chiara, di figure di spessore ai vertici del Paese, mostrando solo una mediocre ambiguità. Sarà anche un paragone banale, facilone e poco complesso – e messo così lo è di sicuro, ma si potrebbe scendere nella complessità: servirebbe un saggio, ma sempre qui si arriverebbe – eppure certe logiche si somigliano. E portano a risultati molto simili.