Per lui Sanremo è il male assoluto, combatte la canzone leggera un disco alla volta e alla musica liquida preferisce il duro punk rock.
È Daniele Vaschi, alias Mr. Grankio, cantante e chitarrista della band punk rock P.A.Y., ma anche Dj Ariele, conduttore radiofonico su emittenti locali come Radio Lupo Solitario, Radio RockFM e LifeGate Radio. Di giorno podcaster, di notte un etnografo del karaoke. Con il suo show “Non è il Karaoke” riempie locali milanesi e dell’hinterland. Lo avrete visto sui grandi palchi del Primo Maggio e del Miami, avreste potuto incontrarlo la domenica al Totem Plaza delle Torri Bianche di Vimercate e potrete trovarlo ancora al Madama Hostel di Milano il sabato.
Daniele va in giro con una cuffia da dj che usa come stetoscopio per capire i gusti dei giovani. Con lui abbiamo cercato di capire qualcosa di più proprio sui gusti delle nuove generazioni e sulla scena musicale italiana.
Questa intervista fa parte di una serie di approfondimenti sullo scenario musicale italiano visto – o meglio, ascoltato – da chi la musica la fa e con la musica ci lavora: artisti, musicisti, dj e produttori della scena locale e nazionale.
Cominciare da lui non è stata la cosa più semplice, ma l’unica giusta da fare. In circa cinquanta minuti di telefonata Daniele ha distrutto tutto: Sanremo, la scena musicale attuale, i gusti delle nuove generazioni (e anche di quelle passate). Ha deflagrato persino la scaletta della mia intervista.
“Siamo all’anno zero della musica”, mi dice aprendo le danze.
Che cosa intende?
Ho una visione novecentesca della musica. Sono nato alla fine del ‘900, il mio approccio alla musica è quello del comprare un disco intero, dell’appassionarmi ad un unico genere musicale e combattere gli altri generi, vederli come negativi. Questo modo di vivere la musica poteva esistere solo all’interno di un mondo in cui c’era un’industria discografica che – pur adattandosi ai vari formati, dal vinile al compact disc – poteva vendere un genere musicale. Con l’arrivo dell’mp3 e dello streaming, le case discografiche che non possono più vendere come prima, perché il formato mp3 si trova gratuitamente e con estrema semplicità sulle piattaforme.
È qui che la musica diventa liquida. E sparisce quel desiderio di comprare un album, che è il modo che conosco io di approcciarmi alla musica. Per un nativo digitale che si è formato ascoltando la musica liquida comprendo che sia difficile sviluppare un’affezione per un unico genere musicale, per un album intero e desiderare di comprarlo. E non è meglio, non è peggio. È solo così.
È da questa intuizione che nasce il format dj set-karaoke?
Il Karaoke è sempre stata una grande presa in giro. È nato come una provocazione dadaista. Invece di fare i dj set rock ho deciso di mettere “Sarà perchè ti amo” dei Ricchi e Poveri pensando che mi avrebbero tirato la verdura. E invece con il passare del tempo mi sono reso conto che il format era perfetto per la fruizione che si stava avendo della musica.
Se all’età dei giovani che vengono alle mie serate mi fossi trovato davanti un dj di 50 anni che mi mette Raffaella Carrà, io gli avrei tirato una lattina di birra. Perché generazionalmente era un qualcosa di alieno da me, io stavo seguendo un altro tipo di musica. Questa cosa adesso non c’è veramente più e credo che il motivo sia la musica liquida e la fruizione attraverso le piattaforme di streaming, che hanno appiattito la fruizione di tutto. Raffaella Carrà, 883 e Sfera Ebbasta rientrano nello stesso gusto musicale.
E allora il karaoke io lo vedo come un algoritmo umano. È il dj, cioè io, che si adatta alla fruizione liquida. Il dj rock che ero prima selezionava la musica secondo il proprio gusto, certo che sarebbe stato accolto dagli utenti. E gli utenti cercavano il fatto che fosse l’esperto a selezionare una canzone piuttosto che un’altra perché la riteneva più bella.
E ora?
Con l’algoritmo di Spotify non è più così. L’utente pretende ciò che sa che avrà. Si è abituato a una selezione di algoritmo, che risponde al “ti faccio sentire quella dopo che suona più o meno come quella prima”. Come dj è paradossale quando per la prima volta ti trovi davanti a richieste musicali che davvero non sai cosa siano.
Parliamo un po’ del Festival di Sanremo. Amadeus è stato un dj, un radiofonico, poi un grande intrattenitore. Le sue edizioni del Festival hanno tenuto insieme artisti di generi apparentemente diversi in un prodotto in realtà molto coeso, come se fossero un unico gusto musicale. Io ci vedo qualche parallelismo con la sua esperienza del karaoke, sbaglio?
Ce lo vedo anche io. E secondo me il successo del format è dovuto proprio al fatto che per fare il direttore artistico Amadeus si è saputo adattare, come faccio io col karaoke, prendendo tutte le skill da dj e radiofonico e… accantonandole per non utilizzarle!
Numeri alla mano, comunque, dobbiamo dire che il Festival piace.
Sì, e la gente è anche disposta a passare quattro o cinque ore consecutive e guardarlo! Ma questo non centra assolutamente nulla con la musica. È il format contemporaneo di intrattenimento che piace.
Della rappresentanza di generi musicali durante la kermesse che ne pensa? L’anno scorso ci sono stati i La Sad e i Bnkr44, gruppi un po’ insoliti per la prima serata di Rai Uno. Se sono arrivati lì, significa che non sono pericolosi. La cresta non è più simbolo di un’appartenenza, ormai. Mi interessa di più quello che resta escluso dal Festival, ad esempio la Trap. Che è un genere musicale verso il quale vedo sopravvivere un senso di appartenenza.
Il Festival di Sanremo spesso viene paragonato a una vetrina, altre volte accostato a un talent. Secondo lei che cos’è?
Per me Sanremo è sempre stato “il nemico”. Perché è sempre stata la vetrina della musica sdoganata. E in effetti è, se vogliamo, una vetrina di quello che c’è. Se sia un talent che permette di scoprire qualcosa di nuovo, non lo so. Quello che vedo, però, è che non esistono novità che rimangono. Perché la fruizione diventa troppo veloce. Nessun pezzo attuale è paragonabile a uno di quelli che definiamo classici, come possono essere i già citati 883 o i Lunapop.
Gli anni ’90, del resto, sono un forte riferimento della musica di oggi, con campionature e remake. Non è certo qualcosa di nuovo, ma crede sia un fenomeno differente dal passato? Molto di più, è un effetto revival. Se in passato un remake di un pezzo poteva essere ancora più forte e attuale, oggi è la canzone originale a continuare ad essere il pezzo imbattibile. E questo credo sia un effetto di quella velocità della fruizione di cui ti parlavo, per cui nessuna novità resta.
È ancora possibile appassionarsi e far appassionare alla musica, oggi? Se si, come?
Sì, assolutamente, ed è importante. Perché se scopri che musica ti piace, magari scopri anche un po’ chi sei. Oggi siamo un po’ in mano agli algoritmi, ahimè, ma ripongo grande fiducia nelle nuove generazioni e nella loro capacità di adattarsi. Io quando parlo di anno zero, intendo un punto a partire dal quale si potrà costruire qualcosa.
Da dove si riparte allora?
Dalla presa di coscienza che gli algoritmi sono una grande comodità su cui ci siamo adagiati, non accorgendoci che tolgono la possibilità di scelta. E che un po’ di scomodità, stimola la voglia di cercare, quindi di scegliere.
Che cosa e in che direzione si potrà costruire? È una domanda che resta aperta, del resto Daniele Vaschi è il distruttore.