TikiTaka 1

Otto anni di rete, la bizzarra scommessa di TikiTaka

Il fondatore di Rete TikiTaka, Giovanni Vergani, ci parla di questi primi 8 anni di vita di quella che lui stesso definisce “Una scommessa bizzarra”.

Scritto da

Federica Fenaroli

Pubblicato il

21 Marzo 2025

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Otto anni. Sono ormai otto anni da che si è dato avvio a questa bizzarra scommessa che è la Rete TikiTaka. A pensarci, a distanza di tempo, penso di poter dire senza esitazione che nessuno di noi poteva immaginare, nel 2016, che quello a cui stavamo per dare avvio potesse assumere oggi un significato tanto importante. Stiamo capendo tante cose. Facendo esperienza che davvero, insieme, sia possibile costruire qualche cosa di più bello per ognuno. Scoprendo che l’amicizia è capace di scardinare i confini tra le persone – quei confini che con precisione abbiamo costruito negli anni andando a definire ruoli e contesti.

Oggi, all’interno della Rete TikiTaka, nel lavoro e nelle relazioni di comunità che la Rete stessa genera, diventa naturale stringere amicizie tra persone con disabilità e operatori, tra famiglie e volontari, tra operatori di servizi diversi, tra vicini e compagni di squadra. Penso che la chiave di questo cambiamento stia tutta nel desiderio sincero di creare relazioni vere e autentiche. Tutte le persone che vivono la Rete, e parliamo di migliaia di persone, vivono questo tipo di incontro con l’altro. Anzi, lo riconoscono come qualcosa di cui, oggi più che mai, abbiamo fondamentale bisogno.

TikiTaka, equiliberi di essere


Penso al claim di TikiTaka, “equiliberi di essere”. Mi è sempre piaciuto. Mi piace perché richiama al concetto di “essere”. Fin da subito mi era stata chiara una cosa: non si sarebbe dovuto cercare il senso profondo di TikiTaka nelle sue progettualità o nella creazione di qualcosa di “straordinario”. Lo si sarebbe dovuto individuare in una condizione diversa del nostro “esistere” all’interno delle relazioni. A ognuno sarebbe stata garantita la possibilità di “esistere” e di fare la sua parte, a suo modo, con le sue idee, possibilità, risorse e fragilità. Un “esistere” che avrebbe trovato la sua forma compiuta solo all’interno della comunità – vale a dire: nella relazione con l’altro.

Questo modo di “essere”, per certi versi, piano piano sradica quella spasmodica ricerca dello straordinario a cui sembra essere delegata l’unica possibilità di costruire un mondo migliore. Ovviamente abbiamo bisogno di persone e di progetti straordinari: ci aiutano a costruire con lungimiranza il futuro. Se riduciamo tutto allo straordinario, però, corriamo il rischio di delegare la costruzione di uno spazio di vita migliore alle sole mani di pochi.

Troppo a lungo la società ci ha abituati a puntare tutto sull’individualismo: questo modo di pensare è stato talmente esasperato che, anche guardando alle persone con disabilità nel lavoro o nello sport, la loro dignità spesso è riconosciuta solamente grazie alla loro “straordinarietà”. Anzi, ancora peggio: sono portatori di disabilità e allora vengono definiti “speciali”. Una definizione che, probabilmente, ci aiuta a rendere più tollerabile e distante la “differenza”.

La riscoperta del senso di comunità


Oggi, però, si respira un’aria nuova. Si sta cercando di insistere sull’importanza della riscoperta del senso di comunità. Del costruire insieme, della reciprocità. Perché solo così possiamo guardare e pensare al futuro. Questa spinta all’essere “insieme” fa a cazzotti con il nostro imperterrito bisogno individualista e di ricerca dello “straordinario”.

Si tratta di un’impasse che possiamo superare definendo nuovi paradigmi: un percorso complesso, lungo, ma necessario. Superare il paradigma individualista e guardare all’altro e alle relazioni che compongono le nostre comunità significa porre l’attenzione all’ordinario anziché allo straordinario. TikiTaka, attraverso la costruzione di relazioni che consentono a ciascuno di “essere” prima di ogni altra cosa. Consente e consegna a ognuno la possibilità di compiere azioni di valore per la comunità. Anche quando apparentemente piccole, restituendo valore dell’ordinario.

Ognuno può “essere ed esserci” senza la necessità di essere speciale. Solo nel riconoscimento che le differenze che contraddistinguono ciascuno di noi costituiscono la reale ricchezza e straordinarietà che consentono la costruzione del reale, di percorsi, di relazioni, di comunità concrete, vere.

Una reale reciprocità


Rifletto sulla seconda parte del claim di TikiTaka: “equiliberi”. Mi piace tanto questa parola che in sé ne contiene altre tre: per creare veramente comunità abbiamo bisogno di essere “equi”, “liberi” e di cercare “equilibrio”.

Equi. L’equità penso sia uno dei cardini dell’essere veramente comunità e fare Rete. Intanto perché questo avvenga non può esserci in termini sostanziali una netta superiorità di qualcuno nei confronti dell’altro. Tra le persone, anzitutto. La dignità di una relazione con una persona con fragilità si gioca nella ferma convinzione di una possibile e reale reciprocità nella quotidianità. Ciascuno dà e riceve. Ma è davvero così? Nella nostra società c’è chi dà e chi riceve, c’è chi può e chi non può.

Le persone fragili sono ancora viste come persone che hanno solo bisogno di ricevere, rimanendo delegate all’essere necessariamente un “costo” in termini relazionali, di energie investite, economici. Senza mai riconoscerne le potenzialità, le risorse, le competenze oltre ai bisogni. Eppure il principio fondante dell’essere comunità è che tutti ne siano parte portando il proprio contributo. Perché un pensiero collettivo lo si costruisce insieme, un’azione collettiva la si costruisce insieme, fare comunità è faccenda di tutte e tutti. E in questo ci deve essere un principio di equità. L’ascolto e il confronto sono gli strumenti principali attraverso i quali riconoscere il valore di ciascuno rendendo la costruzione delle nostre comunità effettiva e concreta.

Equità tra le persone, ma non solo


In un processo di comunità e rete, l’equità relazionale non si gioca solo tra persone ma anche tra enti e realtà più o meno formali del territorio. Ogni realtà – associazione, cooperativa, consorzio, istituzione pubblica e privata, gruppo informale o qualunque altro tipo di costituzione giuridica – gioca un ruolo fondamentale nel proprio contesto di vita. Può svolgere il suo operato in modo più o meno autoreferenziale, oppure in modo comunitario. Questa seconda strada è davvero possibile? Sì, solo se si scardina l’attuale sistema fondato su una visione prestazionale, concorrenziale e competitiva.

Equità tra le organizzazioni significa anzitutto che ogni realtà, organizzazione, istituzione, debba interrogarsi su quale ruolo deve occupare oggi in una visione di comunità capace realmente e realisticamente di valorizzare tutti i soggetti del territorio. Credo vi sia anche un nuovo principio di equità nel rapporto tra istituzioni e privato sociale. Con equità non intendo un venir meno alle proprie responsabilità sociali e politiche per la costruzione del bene comune: l’istituzione pubblica deve assumersi fino in fondo questo dovere.

Credo vi debba essere una visione più equa della costruzione delle politiche sociali, in cui il terzo settore e i cittadini debbano essere riconosciuti nel loro diritto di partecipazione sempre più attiva e debbano essere messi nella condizione di poterlo fare.

Partire dalla comunità per essere comunità


Le istituzioni tutte, di ogni ordine e grado, devono riconoscere che per fare ed essere comunità bisogna partire dalla comunità e dare alla comunità voce e ascolto. Fare politica sociale vuol dire mettere, costantemente, tutto il proprio impegno tecnico e politico a servizio della costruzione di una visione di società più equa, condivisa e partecipata. Fare politica sociale è scommettere sull’essere comunità.

Liberi. Mi piace l’idea che la comunità abbia qualche cosa a che fare con la libertà. Una libertà responsabile e capace di guardare all’altro e al proprio dovere civico, ma in quella possibilità di essere liberi e di poter contribuire alla costruzione delle relazioni del nostro ambito di vita.

Essere in relazione con gli altri è poter vivere la libertà di essere sé stessi, con le proprie capacità e competenze e fragilità. Libertà è poter finalmente dare alla fragilità spazio e riconoscimento nel vivere sociale. La fragilità deve parola e deve avere il diritto di essere guardata, ascoltata, accolta. Ma da questo siamo ancora molto lontani.

Spesso la nostra risposta nei momenti di maggiore debolezza, anche sociale, è la messa in campo di azioni di forza. Al contrario, abbiamo invece bisogno di accogliere la fragilità, di imparare a riconoscerla come qualcosa che, in qualche modo, appartiene a tutti. E che ciascuno sperimenta nel corso della propria esistenza.

Una preziosa fragilità


La comunità, per essere tale, ha un bisogno sostanziale ed esistenziale dell’avere in sé stessa l’espressione della fragilità. In questa prospettiva, chi è più fragile, o la nostra stessa parte più fragile, diventa la parte più preziosa della costruzione della comunità.

Certamente guardarla richiede attenzione, ascolto, tempo. Richiede la necessità di adeguare il passo, talvolta di rallentare rispetto alle logiche prestazionali e perfezioniste che caratterizzano la nostra società. Eppure tutto ciò non può fare altro che costruire contesti di vita maggiormente a misura d’uomo e capaci davvero di rendere liberi.

Equilibrio. La relazione richiede l’arte dell’equilibrio. La relazione è un gioco di equilibri. La comunità, per essere tale, è un gioco di equilibri. Una delle cose che sto imparando, e amando, di questi anni con TikiTaka è la continua e appassionata ricerca di un equilibrio nelle cose, in ciascuna cosa, dal singolo incontro con una persona, con un gruppo, con un ente, fino alla singola azione perché siano davvero espressione di partecipazione capace di stare in equilibrio, in cui ognuno si senta, in quell’equilibrio, riconosciuto.

Creare equilibrio nella relazione ha molto a che fare con la delicata forza della verità, dell’essere sé stessi, del dare voce al proprio pensiero, alle proprie passioni, ai propri desideri, ma richiede anche di essere altrettanto capace di ascoltare e dare valore al pensiero, alla passione, al desiderio dell’altro. Credo che in questo senso, equilibrio, sia strettamente connesso alla ricerca di un pensiero e alla costruzione di un obiettivo comune.

In un’immagine potremmo dire che “equiliberi di essere” sia l’arte paziente dell’essere “noi”, quel desiderio profondo e imprescindibile che l’essere comunità sia costruire appartenenza, costruire luoghi di vita in cui ciascuno possa veramente sentirsi riconosciuto e valorizzato, visto e considerato parte fondante di quell’essere noi.

Giovanni Vergani

Federica Fenaroli

Il mio mestiere è andare a caccia di storie. Scrivo per il Cittadino di Monza e Brianza da più di dieci anni e da sei mi occupo della comunicazione e dell’ufficio stampa di Fondazione della Comunità di Monza e Brianza e del teatro Binario 7 di Monza. Giornalista, monzese doc, se non scrivo leggo.