Ci sono eroi moderni, capitani coraggiosi, che brillano di una luce splendente chiamata speranza. Che sono capaci di una forza, di una motivazione e di una intensità tale che di queste si possono nutrire anche le persone che le circondano. Persone che vanno dall’inferno a Central Park e nell’arco di dieci anni e lo fanno per ben due volte. E se la prima volta è stato esclusivamente per sé, la seconda è stata una missione per conto di Dio. Come i Blues Brothers. Lui è Roberto Di Sante, giornalista e scrittore con la malattia della corsa.
Domenica scorsa si trovava a New York per correre la Maratona più famosa al mondo a dieci anni di distanza dalla prima volta. Lo abbiamo raggiunto a poche ore dal suo ritorno a casa, nella capitale, da dove giunge la sua voce da uomo buono che attraverso il telefono si irradia in tutta la distanza da dove lo sto ascoltando. Ancora una volta incantato, nonostante lo conosca da anni, dalla forza spirituale di questo uomo.
Roberto Di Sante: ancora una volta dall’inferno a New York
“Avevo deciso di ripercorrere le strade della Grande Mela a 10 anni di distanza dalla prima volta. Fu la mia prima maratona e allora rappresentò anche la chiusura di un cerchio”. Roberto è l’autore di un libro di grande successo, che in seguito è diventato anche uno spettacolo teatrale, dal titolo “Corri, dall’inferno a Central Park”. Racconta tutto il percorso che ha portato alla sua resurrezione dopo essere caduto nelle spire soffocanti della sindrome ansioso depressiva. Roberto, attraverso la corsa, riprese in mano sua vita e tagliare il traguardo della New York Marathon fu l’atto simbolico della sua avvenuta rinascita.
“L’idea di partenza era celebrare questo miracolo personale dopo una decade, nonostante non partecipassi ad una maratona da ben 5 anni. Strada facendo però il proposito iniziale è stata superato da qualcosa di più importante, di più grande ed è diventato un’altra cosa”.
Durante la preparazione Roberto Di Sante ha dovuto fare fronte ad alcuni acciacchi e problemi fisici. Ebbene si, anche per i supereroi gli anni passano. Questi fastidi lo avevano praticamente indotto a decidere di gettare la spugna, per una volta nella vita. Ma poi, riceve la mail in cui gli veniva confermata la disponibilità del pettorale. Questo avvenimento ha fatto vibrare le particelle di cui sono composti gli uomini e l’universo, non poteva buttare alle ortiche una celle possibilità che molti anelano.
La preparazione e la fatica
Insieme al suo coach è partita una preparazione mirata, esclusivamente finalizzata a percorre i 42.195 metri della distanza regina nel regno della Grande Mela, entro il tempo massimo concesso dagli organizzatori. E così ha completato la New York Marathon in poco più di 5 ore con indosso la maglietta dell’Athletica Vaticana, che sul davanti recava una parola scritta in italiano ma dal significato universale: Pace. Maglia che ha mostrato anche alla vigilia della gara, sull’altare della cattedrale di Saint Patrick, nel corso della tradizionale messa dei maratoneti.
“Un giorno durante preparazione mi sono ritrovato nel bosco del lago di Castel Gandolfo e ho cominciato a cantare “Dolce sentire” per cercare di eludere la fatica. Un altro giorno durante un allenamento ho incontrato un amico che non vedevo da alcuni mesi e ho creduto di avere una visione. Questo per descrivere quanto fosse grande lo sforzo richiesto arrivare al via della maratona in condizioni accettabili”.
Condizioni di forma che gli hanno consentito di trovarsi sul ponte di Verrazzano domenica 3 novembre, in attesa dello start della gara, non solo come podista. come sportivo che si trovava in quel luogo per celebrazione una ricorrenza, ma come ambasciatore di un messaggio che la gente ha voluto condividere e fare proprio.
Il messaggio di Pace
È successo che nel corso delle sue fatiche, lungo i 5 distretti di New York, il pubblico assiepato dietro le transenne, leggendo la parola Pace sulla sua maglietta ha cominciato a incitarlo, invocarlo, chiamarlo a sé. Così per andare incontro alle persone che lo acclamavano e facevano il tifo per lui, ha iniziato a oscillare da destra a sinistra per salutare tutte quelle persone che volevano essere parte della sua storia e della sua maratona. Essere non solo partecipi ma messaggeri loro stessi. L’andatura di Roberto da caracollante si è fatta ondivaga e questo gli ha fatto percorrere naturalmente una distanza più lunga, tanto che alla fine il suo GPS contava più di 47 chilometri. Ma quello che conta davvero è essere riuscito a portare con sé al traguardo tutto l’amore delle gente di NY.
“Oggi sono talmente dolorante che non riesco neanche a vestirmi e scendere per fare la spesa, ma quello che ho vissuto – racconta Roberto – è stato qualcosa di indescrivibile. Dapprima l’emozione di salire sull’altare della cattedrale e poi quella ancora più forte che ho provato nel corso della maratona. È stato qualcosa che mi ha davvero commosso e fatto piangere. Tutto è diventato più piccolo, meno importante, rispetto a quello che mi stava accadendo. L’entusiasmo che mi ha accompagnato per tutta la First Avenue è qualcosa che non dimenticherà mai più”.