Proprietà Straniere
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Proprietà straniere, la Serie A fa gola ma i tifosi non gradiscono

La serie A è sempre più terreno di conquista per i fondi di investimento, che vedono nel calcio nostrano un asset sempre più importante. I tifosi però non sono altrettanto soddisfatti.

Scritto da

Lorenzo Longhi

Pubblicato il

13 Febbraio 2025

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Chi segue il calcio la notizia l’ha già letta, ne hanno scritto più o meno tutti: con il passaggio del 100% delle quote dell’Hellas Verona da Maurizio Setti al fondo texano di private equity Presidio Investors, avvenuto ufficialmente nel mese di gennaio, oggi più della metà dei club della Serie A è in mano a proprietà straniere. A costo di fare la copia di mille riassunti, prima di entrare nel merito di cosa ciò significhi e implichi, vale la pena ricapitolarle: hanno maggioranze a capitale statunitense, in ordine alfabetico, Atalanta, Fiorentina, Inter, Milan, Parma, Roma, Venezia e appunto Verona, ha capitali canadesi il Bologna, è indonesiano il Como ed è appena passato da un fondo nordamericano a un imprenditore rumeno.  

Proprietà straniere: la situazione


Rapida sintesi: di fatto, parliamo di quattro dei cinque club italiani in questo 2024-25 hanno partecipato alla Champions (e il quinto, la Juventus, è di proprietà italiana per modo di dire, dal momento che Exor, la controllante, ha sede nei Paesi Bassi), di quello con la proprietà personale più ricca (il Como degli Hartono) e di quattro su cinque delle società lombarde (tutte tranne il Monza).

Senza bisogno di elenchi, poi, se ne trovano diverse anche in B, due delle quali attualmente nei primi tre posti in classifica (Pisa e Spezia), oltre al Palermo, notoriamente nell’orbita di City Football Group. Ora, il punto non è la colonizzazione straniera, né ha senso la colata di retorica passatista sul romanticismo delle proprietà italiane, dei patron locali dei tempi andati.  

I quali, peraltro, esistono ancora, solo che ultimamente preferiscono non entrare quasi più nel calcio ad alti livelli, perché l’evoluzione che questo ha avuto nell’ultimo quarto di secolo li ha spinti fuori – e, in certi casi, non è nemmeno un male: ricordate quando gran parte della A bussò allo Stato affinché approvasse l’ormai famigerato “decreto spalmadebiti”, convertito in legge a inizio 2003, per coprire parte dei buchi che loro stessi avevano creato? – e perché oggi, sempre in base a quella evoluzione, il brand conta molto più di chi lo supporta, senza contare che il ritorno di immagine (che, negli anni, in tanti hanno utilizzato anche per fini politici) non è probabilmente più conveniente come una volta.  

L’Italia conviene, ma i tifosi….


Del resto oggi per chi ha capitale acquistare club italiani costa meno che farlo con omologhi club stranieri, ma una certa ritrosia da parte del pubblico resta: quasi tutte le proprietà estere hanno rapporti piuttosto freddi con i tifosi di diverse piazze che a pelle preferiscono istrioni e ciarlatani più che grigi manager che potrebbero lavorare tanto in un club calcistico quanto in una multinazionale del tabacco.  

Ma il tifo, se e quando arrivano i risultati, cambia anche rapidamente umore, come sa chi ha seguito l’ormai ultradecennale esperienza di Saputo a Bologna, giusto per fare un esempio. Gli davano del plumone (del tirchio, insomma), non vedevano la luce, hanno visto le stelle della Champions e ora guai a chi lo tocca. Ma come si è saliti, si può anche cadere, nel calcio e nell’immagine percepita. 

Business sostenibile, il nuovo calcio italico


Con approcci generalmente più legati alla sostenibilità del business – asset immobiliari e una crescita commerciale che porti una maggiore autonomia – che al risultato in sé e per sé, alla logica dell’evento e della presenza digitale più che al rapporto col territorio, certe proprietà hanno inevitabilmente un approccio più tecnocratico e meno dipendente dalla prestazione sportiva, comunque da preservare perseguendo i ricavi che dalla presenza a certi tornei derivano.

Possono pertanto avere difficoltà – e ce l’hanno, appunti – a entrare in sintonia appunto con le piazze, ma in generale (occhio: non sempre e non tutti) aumentano il valore organico dei club e, attraverso alcune scelte strategiche, possono anche incidere sul futuro del pallone. Le proprietà di stampo nordamericano, per esempio, investono con favore nel calcio femminile e nella comunicazione digitale, in quest’ultimo caso percependosi – anche abbastanza correttamente, visto che il business sportivo negli States a ciò è strettamente legato – come multimedia and entertainment company. In termini di media rights hanno visioni diverse da quelle delle proprietà italiane, ed essendo oggi così numerose, possono iniziare a puntare a una sorta di golden share nel governo della A, in merito a decisioni strategiche che riguardino il domani di governance, format e mercato dei diritti di broadcasting.

La scommessa


In base a tutto, però, c’è una scommessa (che è poi è figlia di indagini di mercato), quella in base alle nuove abitudini di consumo del calcio da parte delle generazioni più giovani, diversa rispetto a quella di coloro che, oggi, hanno almeno una quarantina d’anni, o giù di lì, ovvero i non nativi digitali. Consumatori, sì, che piaccia o meno. 

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