“Il superamento del Decreto Dignità è uno degli elementi che ho inserito nella piattaforma programmatica”: Gabriele Gravina, rieletto per il terzo mandato alla guida della Figc, questo ha in testa. Cosa, di preciso? L’abolizione del divieto di sponsorizzazione di giochi e scommesse – deciso col Decreto Dignità del luglio 2018 e convertito in legge l’11 agosto seguente – e il reinvestimento di una parte dei proventi (quanto? Tutto fumoso, qui…) derivati dalle scommesse sul calcio, vincolati al supporto dei settori giovanili, del calcio femminile e delle infrastrutture.
Il calcio italiano che va verso mezzo Europeo, quello del 2032 con stadi e infrastrutture pessime e che palesa un movimento sempre meno credibile questo vuole, proprio mentre in Inghilterra i club di Premier League, un anno fa, hanno concordato di limitare le sponsorizzazioni del settore betting, varando un regime transitorio che porterà nel 2026-27 all’eliminazione dalle maglie di tutti i loghi – oggi sono ovunque – delle società di gioco d’azzardo, inclusi casinò di criptovaluta e le agenzie di scommesse asiatiche.
No alla pubblicità al betting, la marcia indietro dell’Italia
Un divieto che resiste in Spagna ed è entrato in vigore anche nei Paesi Bassi e in Belgio, ma che la Figc non ha mai digerito e vuole superare. E lo farà, perché il Governo è sensibile alla richiesta: la cancellazione del divieto di pubblicità indiretta al betting era stata a un passo dal finire nel DL Cultura, ma se ne sta già parlando in Commissione Cultura al Senato (per la cronaca: siedono a Palazzo Madama sia Adriano Galliani, che fa parte della Commissione, che Claudio Lotito) e la strada appare segnata.
Anche se, in realtà, questo sistema il calcio italiano lo ha già eluso e buggerato, perché d’accordo il Decreto Dignità, ma l’Italia è il Paese dei furbetti, e dal normato di una legge alle linee guida successive – nel caso di specie fornite dall’Agcom, che differenziano tra “pubblicità” e “informazione” – si è creato lo spazio per un giochino nel quale gli spazi quote, presenti su gran parte dei media sportivi, e parecchio in tv, sono considerati spazi informativi, e i club, dal canto loro, digerita la botta, hanno stretto accordi di partnership con operatori del settore, camuffati da siti di news o infotainment.
Fatta la legge, trovato l’inganno
Così quelli che prima del Decreto Dignità erano “betting partner”, oggi si definiscono “infotainment partner” o “digital partner”, sono degli pseudo siti informativi che veicolano i brand del betting ma lasciando intendere un posizionamento differente, e così finiscono sulle maglie, sui siti ufficiali e dappertutto. Tutti lo sanno e tutti fanno finta: lo si può chiamare newswashing, sì, e lo si potrebbe definire borderline, se non fosse in realtà anche oltre il limite e ne siano tutti compiaciuti e compiacenti.
Ora, le scommesse non sono necessariamente il demone dello sport e andrebbero raccontate in una prospettiva storica, soprattutto in Italia, dove per decenni, sino a una trentina d’anni fa, hanno sostenuto di fatto l’intero sport italiano. Si parla, in questo caso, dei proventi di quello che era ai tempi il Totocalcio, in un Paese nel quale le scommesse sportive non erano liberalizzate e quelle non gestite dallo Stato erano illecite (si veda il caso del Totonero).
La liberalizzazione del settore, sottoposto comunque all’autorizzazione statale, è del 1998, ma da allora sono cambiate le tecnologie, il digitale ha abbattuto qualsiasi barriera e, per sua natura, permette anche il gioco su piattaforme illegali, che sarebbe vietato. Se a tutto ciò si aggiungono i dati sulla ludopatia, certo non si può sostenere che l’impianto del Decreto Dignità abbia risolto il problema, ma se non altro ha evitato ai più il bombardamento pubblicitario di società che hanno vita facile nel promettere e far sognare la vincita della vita, e trascinare qualcuno in più nel baratro.
Ipocrisia a basso prezzo
Certo però è necessario ricordare che non si possono dare buoni consigli quando si dà il cattivo esempio, e allora, se la mossa di superamento del Decreto Dignità riuscisse, diventerebbe poi ridicolo, o almeno paradossale, portare avanti programmi per illustrare la pericolosità sociale della ludopatia (sarebbe ipocrisia a basso prezzo, buona per l’applauso degli sprovveduti) o anche solo indignarsi se alla fine i tesserati – che non possono farlo – scommettono.
Peraltro, è emerso che a gennaio la Procura di Udine ha aperto un’indagine su un flusso anomalo di scommesse in occasione di alcune gare dell’Udinese, e tra gli indagati figura anche il portiere della squadra, Okoye, sul quale ha aperto un fascicolo anche la Procura della Figc, quest’ultima giustizialista e proattiva in certi casi, almeno quanto sbadata e rilassata in altri (a proposito di situazioni da inserire in una piattaforma programmatica: una riforma della giustizia federale dovrebbe essere la prima).
Vero è che certi casi hanno ognuno una propria specificità e “giri” tutt’altro che semplici, ma il calcio italiano è anche quello che ha riaccolto in campo, ormai da qualche mese, Fagioli e Tonali, sbattuti in copertina per i loro problemi di ludopatia, e la sensazione è che il fenomeno sia – o, almeno, sia stato – più diffuso rispetto a quanto non sia uscito, e che la differenza non sia tanto tra chi ha scommesso e chi no, parlando di tesserati, ma tra chi è stato beccato (e ha pagato) e chi no. Qui, però, si torna al discorso di prima: con che coraggio si può chiedere ai tesserati – nativi digitali, ricchissimi e con tantissimo tempo libero – di stare lontano da qualcosa che l’ecosistema calcistico promuove in barba alla legge e che, non contento, quella legge la vuole cambiare?