Associazioni e Istruzione

Carcere, una serata per riflettere su pena e reinserimento

Nell’incontro organizzato da Radici del Futuro sono intervenuti Don Fossati, ex cappellano della casa di reclusione di Bollate, la docente Avis Spini e il presidente dell’associazione “Carcere Aperto”, Stefano Del Corno

Scritto da

Daniele Cassaghi

Pubblicato il

4 Aprile 2025

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Il problema non sono i politici o i governi. È l’opinione pubblica, parrocchie e comunità cristiane incluse. La gente non vuole il reinserimento: vuole che queste spariscano dalla vista. E il carcere è il luogo in cui tutto scompare e finisce in un gorgo terrificante”. È così che Don Fabio Fossati, ex cappellano del carcere di Bollate, pone il tema della pena al centro delle riflessioni dell’incontro promosso dall’associazione “Radici del futuro”. L’evento, intitolato “La religione, la scuola e il volontariato possono incidere sulla rieducazione dei detenuti?”, si è svolto martedì primo aprile alla Casa del Popolo, davanti a una sala piena. Oltre a Fossati, sono intervenuti l’ex insegnante brugherese Avis Spini, il presidente dell’associazione “Carcere Aperto” Stefano Del Corno e il moderatore Fulvio Bella.

Introducendo la serata, Bella fornisce qualche dato: in questo momento, nelle carceri italiane ci sono circa 62 mila e 400 detenuti, a fronte di 52 mila e 300 posti previsti. C’è quindi un problema di sovraffollamento evidente, tra le cause del numero di suicidi tra i detenuti: 25, tra italiani e stranieri in parti uguali, nei primi tre mesi dell’anno. Oltre a questo problema “concreto”, Bella ne individua uno etico-morale: “Il buttare via la chiave è il contrario del pensiero democratico. Dobbiamo invece cercare di ragionare sul problema della rieducazione dei detenuti”. E qui si torna al tema dell’opinione pubblica da cambiare, a partire proprio da quell’incontro.

Don Fossati: “Ho l’impressione che il carcere non interessi a nessuno”


“Ho l’impressione che in Italia il carcere non interessi a nessuno – riflette ancora Don Fossati –. L’anno scorso i morti sono stati più di 90. E se in una cittadina di 60 mila abitanti si contassero 90 suicidi, scatterebbe un allarme sociale spaventoso. Per il carcere ciò non accade. I politici guardano poi al consenso: la settimana scorsa c’è stata la discussione in Parlamento sulle carceri e non c’era nessuno, a nessuno interessa. Le mura carcerarie sono fatte per nascondere: a noi, “persone perbene”, dà fastidio doverci perfino occupare del reinserimento di “questi qui”. Qui credo abbiamo bisogno tutti di un sussulto di dignità”.

Fossati ha poi spiegato quali sono i messaggi religiosi in generale, e cattolici in particolare, che possono aiutare con il reinserimento. “Due grandi idee che sono state recepite dalla Costituzione italiana – spiega –. La prima è la visione realistica della persona umana. Ogni uomo o donna è peccatore, ma è recuperabile. Dio giudica il colpevole e rigetta il male, ma non fissa l’uomo nella sua colpevolezza”. Il principio della riabilitazione sancito dalla Costituzione ha dunque un riscontro anche nella religione. “Dio ha continuato a parlare con Caino dopo il fratricidio e ha messo un marchio affinché nessuno potesse toccarlo, perché nessuna colpa o reato può togliere a un individuo la propria dignità”, continua il sacerdote.

La seconda idea è quella di giustizia, per cui, dal punto di vista religioso, la pena è insita nella colpa. “Il male fatto ferisce anche chi l’ha compiuto – dice Don Fossati –. L’opinione pubblica fa fatica a rendersi conto di questo. Ma il male ricade su chi l’ha fatto in mille modi diversi”. Basti pensare alle famiglie di chi è in carcere.

Queste due idee per Don Fossati portano a una terza: la conversione, intesa in modo letterale come cambio di direzione. “La conversione religiosa non c’è senza riflessioni sul male compiuto e sui propri errori, richiede responsabilità del passato e un riordino dei propri valori morali e affettivi – conclude –. Credo che lo Stato laico possa guardare con interesse a questi percorsi che hanno un’origine religiosa, ma che producono effetti buoni per la società”.

Spini: “In carcere si insegna a persone che non sono mai andate a scuola”


Dopo di lui, Avis Spini ha raccontato la sua esperienza decennale come insegnante di italiano per stranieri nel carcere di Monza. “In carcere tutto ha una procedura: non è che uno si iscrive al corso di italiano e va. Bisogna vedere se ci sono incompatibilità e avere molte autorizzazioni”, spiega. Le lezioni si svolgono in vere e proprie aule in assenza delle guardie penitenziarie, che sostano all’esterno pronte a intervenire. “Il clima è tranquillo, a volte ci si dimentica di essere in carcere”, ricorda la docente brugherese.

“La difficoltà più grande è che arrivano persone con scolarità precedenti molto diverse, con culture diverse – prosegue Spini –. Ho insegnato ad adulti di 25 anni che non sono mai andati a scuola. E quindi hanno appreso in maniera “non scolastica”: ognuno con la sua strategia, difficile da capire per l’insegnante. Poi ci sono persone che non conoscono l’alfabeto latino o hanno fatto la scuola araba, che non parlano una parola di italiano”. E dato che facilmente i detenuti a Monza venivano trasferiti, non è stato possibile dare loro dei libri con il rischio che gli studi fossero interrotti. “Mi ero organizzata con fotocopie e pc senza internet: il programma lo si fa su misura per la persona che si ha davanti. Ad alcuni ho dovuto insegnare verbalmente le parole di cui avevano bisogno: educatore, doccia, ecc.”.

Spini ha poi raccontato alcune delle attività svolte dai detenuti di Monza, come la realizzazione del presepe con la creta, poi esposto in città, e di alcune opere d’arte elaborate con i ragazzi del liceo artistico.

Del Corno (Carcere Aperto): “Ci sono persone che non hanno nessuno sul territorio che possa portare loro un vestito di ricambio”


L’ultimo a intervenire è stato Stefano Del Corno, presidente di “Carcere aperto”, anche lui brugherese. “La brutta frase ‘buttare via la chiave’ l’ho pensata anch’io: sentitevi in compagnia”, ammette. “Io non sapevo neanche dove fosse il carcere di Monza, pur abitando a un chilometro di distanza”.

L’associazione che presiede è attiva da 30 anni e porta all’interno della struttura penitenziaria volontari per dare supporto ai detenuti. “Spesso si incontrano persone interessate ad avere qualcosa da te. All’inizio è difficile mettere in chiaro i ‘no’, cosa si può fare e cosa no – riflette Del Corno – ma ogni persona è una storia, spesso complessa e faticosa. A Monza ci sono oltre 700 detenuti e più di 400 hanno problemi di dipendenza. Tanti sono stranieri e non hanno una rete sul territorio, nessuno che porti loro un vestito di ricambio”.

Seguendo le parole del cappellano di Monza, Don Augusto, Del Corno afferma: “Prima della delinquenza, in carcere entra la sofferenza. Noi andiamo a trovare queste persone: il nostro scopo principale è raggiungerle in punta di piedi, senza la pretesa di dire ‘so di cosa hai bisogno’. Possiamo sederci, parlare in corridoio e far fronte ad alcune necessità: una decina di volontari si occupano di vestiario, donato dalle persone del territorio. Per fortuna c’è una buona sensibilità. Partecipiamo ad alcuni corsi e attività e doniamo 15 euro al mese: possono sembrare niente, ma permettono a qualcuno di comprare una tessera telefonica per chiamare all’estero o tre pacchetti di sigarette. Diamo un contributo a chi non ha nulla, anche per le cose più banali, dalla montatura degli occhiali alla pila dell’orologio”.

A volte sono i connazionali a segnalare situazioni di ulteriore marginalità all’interno del carcere, altre volte proprio le guardie. “Capita poi che, dopo mesi in cui ti chiedono solo caramelle, ti prendano da parte e ti raccontino la loro storia. Per me, questa è la soddisfazione più grande”, conclude Del Corno.

L’esempio isolato di Bollate


Al termine della serata, il pubblico ha fatto diverse domande, alcune delle quali chiedevano delle differenze tra il carcere di Monza, considerato “duro”, e quello di Bollate, considerato “modello”. “Bollate è nato tenendo in considerazione la realtà imprenditoriale della zona, sul presupposto per cui il lavoro è la cosa più importante per il reinserimento e per ridurre quindi la recidiva – spiega Don Fossati –. Doveva essere il capofila di un cambiamento, ma, siccome è un esempio isolato, tende ad appiattirsi sugli altri”.

Eppure, da Bollate sono 220 le persone che hanno il permesso di recarsi al lavoro. “Credo non siano così tante nel resto del sistema”, conclude il sacerdote.