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Food for profit, il regista Pablo D’Ambrosi “Nessuna piattaforma ci voleva”

Intervista a Pablo D’ambrosi, produttore insieme a Giulia Innocenzi di Food for profit, il caso cinematografico di questa primavera/estate

Scritto da

Gius Di Girolamo

Pubblicato il

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Food for profit è un grande successo e come tutti i grandi successi fa discutere. Un film di denuncia e come tale, come spesso accade, prima non vuole produrre nessuno ma poi vogliono vedere tutti. Un lavoro che ha scosso l’opinione pubblica, che spinge tutti, anche coloro che, come il sottoscritto, non pensa di cambiare le proprie abitudini alimentari a breve, a porsi delle domande.

Perché se hai visto il documentario diretto e prodotto da Pablo D’ambrosi e Giulia Innocenzi, al di là di quale sia la posizione e/o lo convinzioni di ognuno, è impossibile esimersi dal mettere in discussione le proprie abitudini e un modello produttivo che un modello in realtà non è. Abbiamo raggiunto proprio D’Ambrosi per provare a trovare alcune risposte alle domande che ci siamo posti noi, dopo la visione di questo film che non può lasciare indifferenti.

Pablo, come nasce l’idea di Food For Profit? 

Nasce 5 anni fa. L’idea era quella di raccogliere materiale all’interno degli allevamenti intensivi di tutta Europa, scegliendo quelli che, dati alla mano, ricevevano fondi dalla UE. Ci accusano di aver scelto preventivamente allevamenti in cui certamente avremmo trovato criticità, ma in realtà non è così: non sapevamo nulla di quello che avremmo trovato. E quelle che sono entrati nel montaggio sono solo una piccola parte delle immagini, perché avevamo molto altro materiale. C’erano situazioni peggiori che abbiamo deciso di non mostrare, non volevamo fare un film troppo cruento, volevamo parlare anche di altre tematiche. 

In questi cinque anni come vi siete finanziati? 

Quasi completamente autofinanziati. Per 5 anni abbiamo bussato a numerosissime porte, dalle associazioni ai distributori fino alle piattaforme streaming per cercare di farci aiutare, trovando purtroppo tantissime porte chiuse. Tutti ci dicevano che il film era troppo politico. Nessuno ci voleva puntare. Ci veniva richiesto un prodotto di intrattenimento non di inchiesta. Abbiamo quindi deciso di fondare la nostra società di produzione per poter realizzare e distribuire il film. Comunque, alcune associazioni ci hanno sostenuto, come la Lav, per esempio e anche Avaz. 

È stato difficile decidere quali immagini inserire nel film? 

Sappiamo che moltissime persone, non per forza vegani, sono sensibili alla violenza sugli animali. All’inizio vorresti documentare tutto l’orrore, ma poi ci siamo accorti che c’erano troppe immagini violente, così abbiamo deciso di andare a ridurle. Volevamo dare spazio ad altre tematiche, quali l’antibiotico resistenza, lo sfruttamento dei lavoratori, il rischio di nuove pandemie, la distruzione del territorio.  

La violenza sugli animali è principalmente dovuta alla rapidità processi produttivi, o secondo lei c’è un certo “gusto” nel fare violenza?

Non credo ci sia gusto nel fare violenza sugli animali, ma bisogna considerare che negli allevamenti intesivi gli animali sono considerati cose, oggetti, non essere senzienti. È impossibile per un lavoratore che ha davanti decine, se non centinaia di migliaia di animali, riuscire ad aver un rapporto empatico con essi. Per questo è più facile fare violenza su un qualcosa che è considerato un prodotto, un bene di consumo. È complicato, quando sei parte integrante di un sistema, percepire cosa sia giusto e cosa è sbagliato. So che sembrare molto forte, ma è un po’ quello che succedeva nei campi di concentramento nazisti. Sapevano di commettere un crimine, uccidendo, ma all’interno di quel sistema non era percepito come tale. 

Ingegneria genetica: un obbrobrio intollerabile, eppure qualcuno ci sta già lavorando, al di fuori dell’Europa. 

In Israele ci sono questi polli privi di piume che abbattono i costi, perché non è più necessario lo spiumaggio. In Europa per il momento è vietata, ma sappiamo che c’è la volontà politica e delle lobby di portare avanti questo discorso, pur sapendo che non saranno facile da far digerire all’opinione pubblica.  

Pensa che in qualche laboratorio qualche esperimento di genetica sugli animali sia stato fatto? 

Di progetti non ne sono partiti, almeno non a nostro avviso, ma essendo consentita l’ingegneria genetica sulle piante, pensiamo che questo passo sia quello che nelle intenzioni aprirà la strada alla sperimentazione sugli animali. Anche se, ripeto, difficile sarà sfondare nei confronti dell’opinione pubblica. Certamente punteranno a farlo passare come una esigenza atta garantire un maggior benessere animale. Ad esempio, mucche senza corna, in modo che poi non scornino tra loro, all’interno degli allevamenti intensivi. 

Il successo è stato incredibile. Mi chiedo: avete il timore di essere una bolla? Ovvero: esaurito l’effetto bomba, arrivederci e grazie? 

Si e no. Siamo consci che le cose non cambieranno dall’oggi al domani, però ci sono diverse persone che hanno cambiato le loro abitudini alimentari. E’ un inizio.  Volevamo portare il film al grande pubblico, non volevamo rivolgerci soltanto ad associazioni, vegani, vegetariani eccetera. Bisogna puntare a una riduzione del consumo di carne, soprattutto di quella a basso costo. Sono convinto che il potere della cultura, del sapere, sia in grado di cambiare il comportamento delle persone.  

E comunque, nel frattempo, qualcosa è accaduto nel parlamento europeo 

Esatto, due eurodeputati, Clara Aguilera e Paolo De Castro, non si sono ricandidati alle elezioni europee. Quello è stato un grosso colpo all’agribusiness, perché De Castro ne era il punto di riferimento, la persona a cui tutti si rivolgevano. C’è pochissima informazione nel nostro paese su quali siano i nomi delle persone che in Europa prendono decisioni. Così come sconosciuti ai più sono i nomi dei lobbisti che a Bruxelles, un po’ sul modello di ciò che avviene negli Stati Uniti, hanno un grosso potere. Basti pensare che negli anni Ottanta erano circa 800 i lobbisti al parlamento europeo, oggi ce ne sono 25.000. Un numero spaventoso.  

Più che smettere di consumare carne, che appare un po’ utopico, non sarebbe più opportuno educare a un consumo più consapevole e informato? Ad esempio, se so che una tale marca mi vende carne proveniente da allevamenti intensivi, probabilmente non la compro. 

È difficile pensare al consumo etico. La carne dei supermercati viene tutta da allevamenti intensivi. Noi semplicemente spieghiamo quali problematiche cesserebbero se il consumo si fermasse. Abbiamo voluto mostrare al pubblico la realtà degli allevamenti intensivi e della politica in Europa, realizzando un film denuncia che scuotesse le coscienze. Le scelte però restano ai singoli cittadini.  

Tra le possibili piaghe che potrebbero avere origine mantenendo lo stile di vita di oggi, in cui si consuma molta carne, vengono elencati: inquinamento, cambiamento climatico, possibili pandemie, antibiotico resistenza, peste suina e qualcosa lo dimentico senz’altro. Le faccio una battuta: manca solo l’invasione delle cavallette… sono davvero tutti scenari possibili? 

In realtà tutti questi campanelli di allarme dovrebbero essere uno sprone a cercare di cambiare le cose, stili di vita e comportamenti. Purtroppo, siamo restii ad assecondare queste transizioni e finiamo per capire sempre troppo tardi che percorriamo la strada sbagliata. 

Quello che secondo me emerge più di ogni altra cosa, guardando Food for profit, è che si tratta sempre e comunque di una guerra tra poveri. 

Vero, infatti le vittime degli allevamenti intensivi sono anche gli umani. Le persone che lavorano in questi posti terribili vengono scelte tra coloro che provengono da situazioni economiche e sociali difficili, disposte quasi a tutto pur di lavorare. Migranti per esempio, sfruttati e costretti a fare un lavoro deumanizzante e al limite della legalità. Come l’operaio che ammazzava i polli sbattendoli su un tubo metallico. Quando questi allevamenti si insediano in un determinato luogo, lo fanno promettendo più lavoro per la comunità. Ma la realtà è che tutto il processo è meccanizzato, occorrono non più 2/3 operai in un allevamento intensivo. Inoltre, si tratta di lavori talmente degradanti che spesso i componenti di queste comunità, giustamente, non li vogliono fare. Nel giro di qualche anno questi paesi si svuotano, perché l’odore nauseante che si propaga nei siti dove si trovano questi allevamenti si avverte anche a molti chilometri di distanza. 

Come avete trovato infiltrati negli allevamenti e tra i lobbisti della UE? 

Ci ha aiutati la Lav, coordinando le investigazioni all’interno degli allevamenti, grazie a Steph ha creato un team di infiltrati che ha agito in tutta Europa. Mentre il lobbista Lorenzo, infiltratosi a Bruxelles, si è offerto, anche un po’ incoscientemente secondo me, di essere la nostra talpa. Probabilmente i suoi allora 24 anni lo hanno aiutato a decidere di correre questo rischio. Oggi lavora per Marco Cappato, non possiamo però entrare troppo nei dettagli, per ovvi motivi. 

Momenti di paura durante questi cinque anni di lavoro? 

Paura no, forte tensione si. Sia durante le riprese, che nelle fasi finali della lavorazione, perché avevamo il timore che attraverso le diffide ci bloccassero il film, ricorrendo ad azioni legali.  

Questo enorme successo spinge a pensare che vi sarà un seguito di Food for profit. State lavorando a una… seconda parte? 

Certo, vogliamo continuare su questa strada. Non posso anticipare esattamente su cosa, ma stiamo già lavorando a nuovi progetti, continuando comunque a promuovere Food For Profit e i suoi temi.