sabato, Ottobre 11, 2025
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L’IA a scuola: fra paure e produttività

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L’IA è già entrata a scuola. Lo ha fatto dalla porta principale e senza chiedere il permesso. Mentre il Ministero, gli istituti e il corpo docente s’interrogano sul ruolo di questo strumento, studenti e docenti già lo impiegano in ordine sparso. È quanto emerge dai dati raccolti da chi scrive attraverso due questionari: uno per docenti e uno per studenti, somministrati in scuole di diverso ordine e grado. Secondo i risultati, le linee guida ministeriali arrivano in ritardo rispetto alle pratiche reali. La scuola rischia di perdere il controllo sull’uso dell’intelligenza artificiale proprio nel momento in cui dovrebbe imparare a governarla.

L’IA per gli studenti

Stando ai dati raccolti, soltanto l’1,3% degli studenti dichiara di non utilizzare abitualmente un software di intelligenza artificiale.
La maggior parte lo fa per ragioni diverse: dalla semplice ricerca di informazioni alla curiosità di sperimentarne le potenzialità.

Questo dato contrasta nettamente con l’atteggiamento percepito dei docenti: per gli studenti, si pongono in modo perlopiù negativo sul tema.
Di conseguenza, molti finiscono per utilizzare l’IA nonostante i divieti o la disapprovazione: il 65% ammette di averlo fatto anche per barare nello svolgimento di un compito, spesso con la convinzione che l’insegnante non se ne sia accorto. L’aspetto più interessante, però, riguarda la percezione morale dell’uso stesso: non viene percepita una differenza tra copiare e utilizzare l’IA al posto loro.
Solo il 23,1% considera questa pratica più grave del copiare tradizionale, mentre per l’11,5% è addirittura meno grave. Nel complesso, ciò che emerge è un quadro di normalizzazione dell’IA. Gli studenti la percepiscono come un’applicazione come le altre, utile e inevitabile.
L’assenza di regole condivise e di un uso realmente guidato li spinge a impiegarla in modo autonomo — spesso non per imparare, ma per aggirare i compiti.

L’IA per i docenti

Di contro, i docenti mostrano un utilizzo ancora marginale dell’intelligenza artificiale.
Solo il 40% dichiara di impiegarla con una certa regolarità, mentre più della metà lo fa in modo occasionale. La differenza più marcata rispetto agli studenti riguarda le finalità d’uso: l’IA viene usata quasi esclusivamente per costruire verifiche, chiarire dubbi o progettare lezioni.
In sostanza, gli insegnanti sembrano impiegarla per velocizzare il lavoro, mentre gli studenti sono mossi soprattutto da curiosità ed esplorazione. Circa la metà dei docenti interpellati non ha mai utilizzato strumenti di questo tipo in classe, limitandosi a un uso privato e funzionale al proprio ruolo.


La causa principale è da ricercare in un atteggiamento tutt’altro che unitario: qualcuno la considera un tabù, altri ne invocano un uso responsabile, altri ancora si dichiarano incuriositi ma timorosi. A questo si aggiunge una scarsa fiducia verso gli studenti, che secondo la maggior parte dei docenti tendono a usare l’IA per barare più che per imparare.
Nel complesso emerge un bisogno condiviso: il 78,3% ritiene necessaria una formazione specifica, ma pochi sanno indicare che tipo di formazione sarebbe davvero utile.
Il risultato è una scuola in cerca di orientamento, dove l’innovazione avanza più veloce delle strategie per comprenderla.

A fronte delle perplessità che emergono sul tema IA, abbiamo provato a contattare l’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia. L’idea era quella di sentire un parere istituzionale sul tema e sapere in che modo la direzione scolastica sta fronteggiando il problema. Non abbiamo, purtroppo, ricevuto risposta. In questo senso, non ci resta che augurarci che ci sia un’adeguata comprensione della situazione attuale delle nostre istituzioni.

L’IA: un problema culturale

Dopo l’invenzione delle moderne calcolatrici elettroniche, molti docenti ne vietarono l’uso in classe.
La ragione era semplice: gli studenti dovevano imparare a fare i conti a mente, perché solo così avrebbero “davvero imparato”.
Oggi la calcolatrice è un oggetto comune, ma quella resistenza iniziale racconta molto del modo in cui la scuola percepisce la propria funzione. Fin dalla riforma Gentile, la scuola italiana si fonda su un modello verticale: il docente trasmette conoscenze, l’allievo le riceve.


Nel tempo, questa struttura ha cambiato linguaggio ma non sostanza.
Al posto delle “conoscenze” oggi parliamo di “competenze”, ma l’impianto resta lo stesso: il docente deve inculcare abilità misurabili, spesso modellate su schemi aziendali più che educativi. È qui che nasce la paura verso l’intelligenza artificiale. In un sistema in cui l’insegnamento è ridotto a trasmissione ed efficienza, una macchina appare inevitabilmente più performante.
Se il compito dell’insegnante è “produrre risultati”, allora l’IA lo fa — e meglio. Non stupisce, quindi, che molti docenti utilizzino l’intelligenza artificiale per accelerare o semplificare il proprio lavoro: creare verifiche, impostare lezioni, chiarire concetti.
Proprio questo uso “produttivo” rivela il cuore del problema: una scuola che misura la didattica in termini di compiti da svolgere rischia di perdere di vista la sua funzione più profonda — quella di far pensare.

Eppure il senso della scuola non dovrebbe stare nella produzione di risultati, ma nella costruzione del pensiero. L’intelligenza artificiale non minaccia questo compito: lo mette a nudo. Mostra che, da troppo tempo, l’insegnamento si è confuso con la produttività e l’apprendimento con la prestazione. Forse, il rischio più grande non è che le macchine pensino al posto nostro, ma che noi smettiamo di farlo, presi dal tentativo di dimostrare di essere ancora indispensabili.

L’IA non sostituirà i docenti, ma costringerà la scuola — e forse la società intera — a chiedersi per la prima volta perché insegna, che cosa insegna e a che scopo.
Quando sapremo rispondere a queste domande, non avremo più paura dell’IA.

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