Interviste, Sport

Chi si ricorda della questione Saudi Aramco?

Una lettera firmata da 133 calciatrici muove accuse di sportwashing contro la partnership della Fifa con il colosso degli idrocarburi dell’Arabia Saudita. L’approfondimento con le interviste a Nicola Sbetti e Valentina Forlin.

Scritto da

Valentina Drago

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È passato più di un mese dall’articolo de El Pais che raccontava della lettera di 106 calciatrici professioniste indirizzata alla FIFA per protestare contro l’accordo di partnership stretto con Saudi Aramco, il colosso energetico di proprietà dell’Arabia Saudita.

La lettera, che nel frattempo ha raccolto altre adesioni arrivando a 133 firme, definisce l’accordo “un dito medio alzato contro il calcio femminile” e ne chiede l’annullamento.

Il Presidente FIFA Gianni Infantino, però, negli scorsi giorni è sembrato più indaffarato a far incidere il proprio nome sul nuovo trofeo del Mondiale per Club prodotto da Tiffany&co. che ad occuparsi di rispondere alle domande che la lettera rivolge a lui e alla Fifa.

Nel frattempo, l’ex CT della nazionale Roberto Mancini, che aveva lasciato Coverciano proprio andare in Arabia Saudita torna e rilascia dichiarazioni che lasciano immaginare che qualcosa laggiù stia scricchiolando e che non è tutto oro quello che luccica…

Per comprendere come è nata la protesta e dove potrebbe portare abbiamo intervistato due esperti. Nicola Sbetti, Ricercatore in storia contemporanea al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, membro del direttivo della Società italiana di storia dello sport e autore di svariate pubblicazioni sul tema. E Valentina Forlin, content creator e copywriter che da molti anni racconta il calcio femminile italiano (e non solo) attraverso collaborazioni con Ultimo Uomo, FIGC femminile e il suo progetto personale Ceretta, il calcio senza peli.

Recap: cosa è successo dopo l’accordo tra Fifa e Saudi Aramco


La Fifa, Federazione internazionale che si occupa dell’organizzazione dei campionati mondiali di calcio, ha sottoscritto un accordo di partnership per i mondiali maschili del 2026 e quelli femminili del 2027 con Saudi Aramco, compagnia nazionale saudita di idrocarburi, tra le più grandi compagnie petrolifere al mondo e principale finanziatore del governo dell’Arabia Saudita.

Secondo i rumors riportati dal Sole 24 Ore, l’accordo potrebbe valere complessivamente 350 milioni.

Alcune calciatrici di rilievo internazionale si sono ritrovate a discutere del significato di questa partnership e a redigere la lettera, sostenute da Athletes of world, associazione no profit di sportive professioniste per la difesa del Pianeta. Tra le promotrici anche Sofie Junge Pedersen, centrocampista dell’Inter e della nazionale danese, volto della serie A spesso in prima linea per la causa ambientale.

La lettera è chiara e diretta nel motivare la richiesta: “Saudi Aramco è la principale fonte di denaro dell’Arabia Saudita ed è di proprietà statale al 98,5% – si legge nei passaggi iniziali – Le autorità saudite hanno speso miliardi in sponsorizzazioni sportive per cercare di distrarre l’attenzione dalla brutale reputazione del regime in materia di diritti umani, ma il trattamento riservato alle donne parla da solo.”

Le accuse non restano generiche. Nel testo è incluso un elenco nominale di donne che negli scorsi mesi sono state imprigionate, maltrattate o violentate per aver espresso il proprio pensiero.

Per le calciatrici non è accettabile che la Fifa stringa un accordo con il principale ente finanziatore dello stato saudita che è responsabile di continue violazioni della libertà di espressione e dei diritti umani, con particolare riguardo alle donne e alla comunità LGBTQ+. Motivazione aggiuntiva, ma non accessoria, è la non sostenibilità dal punto di vista ambientale del business di Saudi Aramco, che contribuisce in modo significativo al cambiamento climatico.

Le firmatarie della lettera di protesta

Tra le firmatarie, oltre Pedersen, nomi di rilievo come Becky Sauerbrunn (USA), Vivianne Miedema (Olanda), Erin McLeod (Canada) e molte altre.
Diverse anche le giocatrici italiane di serie A e B ad aver sottoscritto il documento: Sofia Meneghini dell’Hellas Verona, Agata Centasso del Venezia, Tecla Pettenuzzo del Napoli, Norma Cinotti della Samp, i portieri Matilde Copetti (Parma), Rachele Baldi (Inter), Francesca Durante e Katja Schroffenegger (entrambe della Fiorentina), nonché la difensore romanista e capitana della nazionale Elena Linari.

Proprio Elena Linari ha rilasciato una dichiarazione a riguardo a margine degli ultimi impegni in Nazionale: “Vogliamo mandare dei segnali molto molto forti, non ci possiamo accontentare dei soldi. Penso che il calcio femminile non si sia mosso mai per questi, ma si sia mosso per dei valori, dei principi, delle idee e vogliamo essere portatrici di tutto questo. Dispiace che la Fifa possa aver firmato questo accordo, ci farebbe piacere che ci possa essere solidarietà ovviamente. Però noi dobbiamo andare dritte per la nostra strada e sicuramente non chiediamo aiuto a nessuno. Siamo donne e fiere di esserlo.”

La “scoperta” dello sport da parte del mondo arabo


L’attenzione dell’Arabia Saudita ai grandi eventi sportivi internazionali e a sedersi al tavolo delle federazioni è un fatto. E non è l’unico paese dell’area medio orientale ad aver avviato un simile processo.

Nicola Sbetti spiega che “L’Arabia Saudita , attraverso Saudi Aramco, sta facendo in maniera più aggressiva ed evidente di altri paesi ciò che in realtà da tempo fanno tutti: ossia utilizzare lo sport a fini politici. Lo avevano fatto anche la Russia e il Qatar con i mondiali, Dubai attraverso le sponsorizzazioni di Fly Emirates, ma anche la Francia di Macron con le Olimpiadi. Ci appare più evidente la strumentalizzazione quando si tratta di Paesi autoritari. L’Arabia Saudita è partita dopo e ha cercato di recuperare il gap. Lo ha fatto subito perché ha una forza economica superiore rispetto agli altri Paesi del golfo, ma il modello seguito è lo stesso e non riguarda solo il calcio, ma anche altri sport di rilievo internazionale come tennis, formula 1, cricket”.

L’investimento dell’Arabia Saudita nel calcio femminile

Un elemento di novità può essere individuato nell’interesse esteso al calcio femminile, come osserva Valentina Forlin: “Lo sport femminile è un ingranaggio per poter completare questo disegno. Nessuno, fino a pochi anni fa, aveva mai sentito parlare della Saudi Pro League. E poi due estati fa il calcio mercato è stato completamente scombussolato dal fatto che i migliori giocatori esistenti, da Benzema a Cristiano Ronaldo, siano stati pagati tantissimo per andare a giocare in Arabia Saudita. Pian piano si è iniziato a parlare anche di calcio femminile.

Nel Paese esisteva già una lega, ma molto marginale – continua Forlin – L’anno dopo l’arrivo dei grandi campioni in arabia spunta fuori la Sudi Pro League Women che, a un solo anno dalla nascita è sbarcata su DAZN. Una lega fino a quel momento sconosciuta chiude un contratto con uno dei broadcaster che ad oggi ha in mano le maggiori competizioni sportive internazionali. È un traguardo che anche i campionati europei più competitivi e seguiti di calcio femminile, come la Women Super League inglese, hanno faticato a raggiungere. Questo è indice dell’intenzione di smuovere grossi investimenti anche nella direzione del calcio femminile.”

Attrarre i migliori talenti: uno schema che si replica

Uno schema di ricerca di visibilità che ricalca quanto fatto per il calcio maschile, con il tentativo di accaparrarsi i migliori talenti.
“Sono sorti molti rumors – continua Forlin circa il fatto che alcune delle migliori giocatrici attive nei campionati europei siano state contattate da club della Saudi Pro League Women per andare a giocare lì, con promesse di ingaggi importanti. E alcune giocatici sono effettivamente andate a giocare nella Saudi Pro League Women. Ad esempio Ajara Njoya, ex giocatrice dell’Inter che ha fatto molto bene nel club milanese, per poi quasi inaspettatamente trasferirsi in Arabia a stagione in corso. E altre stanno seguendo le sue orme. Per alcune è una questione economica, per altre è anche una questione religiosa che, sommata agli ingaggi significativi, diventa una offerta da non rifiutare”

Basta questo per parlare di sportwashing nel caso Saudi Aramco?


Le strade della politica per stringere alleanze e sedersi ai tavoli del potere sono diverse, passano per sport, eventi, cultura. Nell’ambito delle relazioni internazionali si parla di softpower e si tratta di modi evoluti e diplomatici di intrattenere rapporti e raggiungere obiettivi senza l’utilizzo della forza.

Quando, allora, si parla di sportwashing? Lo spiega Nicola Sbetti:

“Il termine sportwashing è legittimo per chi fa attivismo, è stato inventato in questo contesto. Alla vigilia dei giochi europei di Baku in Azerbaigian gli attivisti volevano evidenziare come il governo stesse investendo sullo sport anche per distogliere l’attenzione dalle problematiche sui diritti umani. Non è un termine neutro. Implica una esplicita critica morale al regime che sta utilizzando lo sport a fini politici. Anche Mandela con il mondiale di rugby del 1995 è un esempio di strumentalizzazione politica dello sport, ma avviene per un valore altissimo, ossia quello della riconciliazione. La stessa cosa, ma con presupposti valoriali molto diversi, aveva fatto nel 1936 Hitler per accreditare il regime più becero che ci sia stato nella storia. A seconda della valenza etica che diamo alla strumentalizzazione politica cambia il giudizio.”

Per le firmatarie della lettera di proteste si tratta di sportwashing

Rispetto all’accordo Fifa-Saudi Aramco e all’interesse dell’Arabia Saudita per lo sport internazionale le calciatrici non hanno dubbi sul fatto che si tratti di sportwashing e lo scrivono a chiare lettere.

“L’Arabia Saudita anni fa ha sviluppato il programma Saudi Vision 2030 . È il programma strategico per permettere al Paese di ridurre la sua dipendenza dal petrolio – commenta Valentina Forlin Per farlo hanno bisogno di investire e sviluppare altri settori e farli diventare economicamente forti e competitivi. Hanno iniziato a puntare molto sul calcio. È uno strumento potentissimo di promozione di cambiamenti, attraverso il quale far passare operazioni economiche come operazioni di cambiamento culturale. Si tratta però di un paese molto fondamentalista e che segue letteralmente il Corano nelle sue posizioni più radicali. Per noi occidentali si tratta quindi di posizioni piuttosto estreme rispetto ai diritti umani fondamentali.”

La protesta contro Saudi Aramco da parte del calcio femminile. Da dove arriva e soprattutto dove porterà?

Si può immaginare che la lettera delle 106 calciatrici origini dalla volontà di prendere posizione in quanto donne. Non sarebbe del tutto sbagliato, ma forse c’è di più ed ha a che fare con i valori alla base del movimento calcio femminile.

Valentina Forlin: “Se il calcio femminile in questo genere di circostanze riesce a esporsi di più rispetto al calcio maschile è perché fa parte della natura intrinseca dello sport femminile. Nasce dalla lotta per far riconoscere ciò che giustamente e con fatica è stato guadagnato sul campo. Far finta di niente davanti a queste situazioni significherebbe rinnegare la natura stessa di questa lotta

In maniera concorde, Nicola Sbetti: “La due volte pallone d’oro Aitana Bonmatì, oltre ad essere una campionessa, ha una grande sensibilità per le cause fuori dal campo. In generale, nel calcio femminile è maggiore il numero di giocatrici sensibili agli aspetti sociali e politici, cosa non comune nel calciatore medio.
Questo è dovuto anche al fatto che il calcio femminile sta lottando per la propria visibilità, è stato e continua ad essere più discriminato rispetto a quello maschile. Già questa lotta di rivendicazione è una battaglia politica di genere importante. Proprio per questa esigenza di legittimazione, il calcio femminile punta molto sull’aspetto dei diritti. E sono molte le giocatrici, anche di alto livello, che non sono disposte a fare compromessi.”

I soldi messi in campo dall’Arabia Saudita sono molti. A tal riguardo Sbetti commenta: “Bisogna considerare che le dinamiche economiche possono in qualche modo possono rompere le dinamiche solidali e collettive. Sarà da vedere alla lunga quanto resta coerente la presa di posizione. Per ora osserviamo una maturità maggiore e tendenza a tenere la schiena dritta delle calciatrici.

Per ora la protesta è firmata da 133 giocatrici. Rischia di essere un sasso in uno stagno?


Non è molto ottimista o forse è solo realista Valentina Forlin: “Non credo che questa lettera cambierà le cose. Potrebbe avvenire solo con un’adesione di massa di altre giocatrici e la decisione di boicottare il mondiale. A quel punto sarebbe da capire la reazione delle singole federazioni: proverebbero a convocare altre giocatrici? Si ritirerebbero dalla competizione rinunciando agli introiti che derivano dalla partecipazione al mondiale?  Credo che il calcio femminile da solo non abbia la forza per essere da traino per un intero movimento sportivo.”

Il traino, per Sbetti, deve arrivare dai media e dalla società civile: “Certamente questa lettera è un sasso in uno stagno. Ma poi sta ai media dare il giusto peso nei prossimi mesi e anni.

Oggi la Fifa sta di fatto regalando all’Arabia Saudita un Campionato Mondiale – osserva Sbetti – Non c’è nulla di male che possa essere organizzato lì. Si tratta di un paese sovrano, che fa parte della Fifa e non ha mai organizzato i mondiali. Diventa invece scandaloso se non c’è un processo chiaro di assegnazione, e i termini di presentazione delle candidature non sono trasparenti. Se non c’è opposizione interna alla Fifa, se la Fifa stessa non ha la accountability di richiedere una certa trasparenza nelle sue modalità di assegnazione dei propri eventi; se la società civile non ne tiene conto; se i media non ne chiedono conto se non quando è troppo tardi, allora ben venga la protesta delle calciatrici anche se il peso politico è ridotto.

Poi chiosa: “È un gesto che, anche qualora poi i mondiali si svolgessero davvero in Arabia Saudita, inizia a creare una pressione, che potrebbe poi portare al cambiamento.”

Un esempio positivo dal passato

Ci sono esempi positivi in tal senso: “Quando sono state assegnale le olimpiadi di Seul nel 1988 la Corea del Sud era un Paese autoritario. Aveva, però, dentro di sé una società civile attiva che spingeva verso la democratizzazione. Quando negli anni di preparazione olimpica la società civile ritorna a presentare pretese, il governo non può più sparare ad altezza uomo a chi manifesta. Il vincolo esterno dell’evento sportivo ha a suo modo contribuito alla svolta democratica.”

Questa svolta potrà avvenire anche in Medio Oriente?