Da “Un nemico al giorno”, Storia di una giornalista (Limina, 2003) di Italo Cucci: “Giovanni Arpino l’avevo conosciuto per lettera. Mi scrisse da Torino per presentarmi un giovanotto. Ti mando Darwin Pastorin. È bravo. Tanto bravo che da queste parti non riuscirebbe mai a lavorare. Fu un regalo che mi fece”.
Cominciò, così, la mia carriera da giornalista, grazie alla generosità di Arpino e alla fiducia di Cucci. Era il 1976. Avevo ventidue anni e facevo parte della famiglia de “Il Guerin Sportivo”. Ora vi racconto chi era “Arp il favoloso”. Il calcio è tante cose, lo sappiamo: sport popolare, passione e fanatismo, “un elemento fondamentale della cultura contemporanea”, come intuì Thomas Stearns Eliot, Premio Nobel per la Letteratura nel 1948, nostalgia del dribbling e invasione del marketing, trasmissioni quotidiane, “metafora della vita” (Jean-Paul Sartre, che rifiutò il Nobel nel 1964) e “recupero settimanale dell’infanzia” (Javier Marías), miseria e nobiltà, prodezza e inganno.
Football è letteratura, grazie a Giovanni Arpino
Il football è anche letteratura: grazie, soprattutto, a Giovanni Arpino, lo scrittore (premio Strega nel 1964 con “L’ombra delle colline”) che portò la narrazione del pallone da cronaca di seconda mano a riconosciuto valore narrativo. Accadde nel 1969 quando, sul quotidiano “La Stampa”, l’autore di “La suora giovane” cominciò ad andare per stadi e tribune stampa trasformando il pallone e i suoi protagonisti in puro e folgorante racconto, tra ode e rimprovero, campioni e gregari, anime salve e anime perse, ferro e polvere.
Fu così che, grazie a quel superbo, “impavido indagatore del presente” (come sancì Guido Piovene) ci ritrovammo, noi cronisti, noi “bracconieri di tipi e personaggi”, a essere, finalmente, un “esercito con una patria”, connotati da rispetto e appartenenza, infine non più smarriti e sbandati. C’era l’immenso Gianni Brera, è vero: ma il grande Giuàn era un giornalista sportivo a tutti gli effetti, certo il più bravo di tutti, la penna che inventò “Rombo di Tuono” e “Abatino”.
Ma fu Arpino, scrittore celebrato, a sdoganare, una volta per sempre, la scrittura sportiva, dando continuità alle incursioni sul prato verde delle lettere allo scriba corsaro Pier Paolo Pasolini (“Il gioco del football è un ‘sistema di segni’: è, cioè, una lingua, sia pure non verbale”) e ai versi di Umberto Saba (“Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non veder l’amata luce. / Il compagno in ginocchio che l’induce, / con parole e con mano, a rilevarsi, / scopre pieni di lacrime i suoi occhi”).
Azzurro Tenebra
E ad Arpino dobbiamo il nostro romanzo più originale e intenso “dentro” il calcio: “Azzurro tenebra” (1977), ambientato nei giorni della disastrosa spedizione della nazionale italiana ai mondiali in Germania nel ‘74. Mi disse di quella sua opera: “Io mi considero uno scrittore non italiano, che usa la propria lingua sempre meno. Azzurro tenebra è un libro intraducibile”.
Non potrò mai dimenticare il Mundial dell’82 in Spagna (ero un giovane inviato speciale di “Tuttosport”, grazie al mio direttore Pier Cesare Baretti): sul campo l’avventura omerica di Enzo Bearzot e dei suoi ragazzi, in tribuna stampa Giovanni Arpino, Gianni Brera, Mario Soldati e Oreste del Buono a illustrare quei gol, quelle parate, quegli stupori in indimenticabili articoli. Fu un successo da “realismo magico”: e in quell’anno ottenne il Nobel il colombiano Gabriel García Márquez, padre di quel filone letterario.
Sì, aveva ragione Luis Sepúlveda: “Raccontare è resistere”. E Arpino rappresentò narrazione e resistenza, il nostro pane in tavola, la nostra luce bianca. E grazie, caro Arp, per averci fatto conoscere, con Nico Orengo, quell’altro, stupendo picaro della letteratura (anche) calcistica: Osvaldo Soriano (“Sono così le storie di calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni”).
I dribbling linguistici di Arpino
Arpino è ancora qui, con il suo sguardo attento, la sua ironia, il suo saper maneggiare gli aggettivi con la stessa abilità di un Borges, a indicarci la strada, a farci da bussola: “Parlar di football è bello e talora di spirito in compagnia, al bar. Scrivere è più ostico, la materia verbale è cruda, l’invenzione metaforica rischia sempre di travisare il gesto agonistico”. Giovanni sapeva come dribblare, con una finta degna di un Garrincha o di un Meroni, la banalità, la frase fatta, il verbo usurato. Sapeva come andare a rete con una frase ficcante, abbagliante, stilisticamente perfetta.
Era un autentico fuoriclasse della parola: e noi, umili allievi, eravamo felici di stare all’ombra di quel gigante. E sul nostro taccuino troviamo, in evidenza, uno degli incipit più luminosi della nostra letteratura: “La vita o è stile o è errore”. Non serve aggiungere altro.





