«Credevo di riuscire a farcela da sola, ma non ce l’ho fatta. È stato un grande passo aver trovato il coraggio di dirlo». In un’intervista rilasciata ad ottobre al quotidiano Domani, Alice D’Amato è diventata ancora più grande. Non solo è stata (ed è) la prima italiana della storia ad aver vinto una medaglia olimpica nella ginnastica – la medaglia d’oro nella trave a Parigi 2024 –, ma è diventata un altrettanto grande esempio nell’esprimere ciò che invece, il più delle volte, si nasconde: l’essere umani.
«Quando ho vinto sono andata completamente in tilt. Ho scoperto un’altra me che non conoscevo. Cercavo di nascondere la mia sofferenza, fingevo sorrisi, ma poi alla fine sono sbottata». Nonostante gli abbracci e le lacrime di incredulità, qualcosa si era mosso. Un senso di estraneità, di disagio, di non appartenenza a se stessi.
Il mondo ritiene che una vittoria così grande possa portare ad un’altrettanta felicità così grande, ma non è così. Anzi. Per chi riesce ad esprimerlo, per chi riesce a parlarne, spesso si tratta del momento più buio per un atleta. Arrivare al culmine, in alto, e guardare di sotto.
È un lavoro su di sé, in cui bisogna guardarsi dentro, ritrovandosi nonostante il cambiamento. Una vittoria infatti cambia. Ci sono aspettative che diventano sempre più esigenti, movimenti che devono combaciare, margini di errore ristretti e caratterizzati dall’impossibilità di sbagliare. La vittoria, a quanto pare, non rende più umani.
Alice D’Amato non è stata l’unica ad affrontare apertamente le sue difficoltà. Un’apripista che ha agito quasi in sordina è la tennista giapponese Naomi Osaka, la prima che, umanamente, ha parlato della sua depressione sfociata nel ritiro dal Roland Garros del 2021: «Da dopo gli US Open del 2018 soffro di lunghi periodi di depressione – aveva dichiarato in un lungo post sui social. Negli ultimi tempi, quando perdevo mi sentivo tristissima, ma quando vincevo non ero felice: al massimo sollevata. E non penso sia normale». Frasi dolorose che, però, le sono valsi il ritorno in campo e, soprattutto, il ritorno a se stessa.
Un’atleta che ha sollevato e reso tangibile la questione della salute mentale è sicuramente Simon Biles, ritiratasi dalle Olimpiadi di Tokyo 2021: «Devo fare ciò che è giusto per me e concentrarmi sulla mia salute mentale, non mettere a repentaglio la mia salute e il mio benessere» aveva dichiarato. Il benessere psicologico prima di tutto. Parlarne è un modo per uscirne, per riacquistare quella fiducia lasciata sul podio.
E dopo il buio, la luce. Il risalire in pedana senza aspettarsi nulla, vivendo soprattutto la propria umanità. «Ho provato lacrime di gioia, di orgoglio. Per aver sconfitto le mie fragilità. Per dire a me stessa: Alice non hai mollato, un passo alla volta puoi andare avanti, puoi ancora dare tanto alla ginnastica». Alice D’Amato ha ristabilito i limiti dell’essere umani, lo ha fatto per sé e per gli altri, per chi ancora oggi ha paura di dire “Sì. Sono umano”. È stata la forza interiore a darle la spinta, è stato il non sentirsi sola, il non essere lasciata da sola. Rivolgersi a una psicoterapeuta per andare più a fondo, toccando i limiti della sofferenza per poi, però, risalire in superficie. Risalire su quella trave e scenderne con la testa in su e il coraggio di guardare giù. Da essere umano.





