Eduardo Galeano, morto a 74 anni, nel 2015, nella sua Montevideo, è tornato in libreria, grazie alla casa editrice Sur e alla passione di un intellettuale romantico come Marco Cassini. L’autore uruguaiano, sempre più rimpianto, sempre più necessario, è stato un cantore della libertà, della ribellione, dell’Utopia, del calcio. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, e di diventargli amico. Mi fece un regalo grandissimo, così scrisse per salutare l’uscita del mio primo libro Feltrinelli, con il titolo voluto da Antonio Tabucchi, Le partite non finiscono mai: “Per essere devoto delle belle lettere e del bel calcio, leggo le cronache di Darwin Pastorin come chi ascolta messa“.
Laureato in Galeano
Un omaggio che per me vale, ancora oggi, come una laurea. Parlare con Galeano era sempre una meraviglia, uno stupore, ti colpiva la sua capacità di analizzare la vita, le debolezze e la forza dell’uomo, quel suo mettere in ridicolo il Potere. Hugo Chavez regalò al presidente americano Obama una copia del suo capolavoro Le vene aperte dell’America Latina, il saggio contro il colonialismo e il post colonialismo e una difesa delle terre, degli indigeni.
Difendeva il diritto al “delirio” e la sua è stata un’esistenza colma di sdegno contro la violenza nei confronti dei deboli e degli emarginati, contro l’intolleranza e di amore profondo verso gli ultimi. Ci ha insegnato a inseguire l’Utopia come se fosse l’orizzonte: che resta irraggiungibile, è vero, ma che ci porta a camminare, a non vietarci nessun sogno, nessun traguardo. Ricordo un pomeriggio a Piacenza, a ricordare l’amico e sodale Osvaldo Soriano, un altro arpiniano “bracconiere di storie e personaggi”, a discutere di pallone e di quel ruolo di portiere che lui amava tanto, perché rappresentava la genialità, la follia, l’imprevedibilità.
Tutti quanti noi narratori di football abbiamo letto e riletto Splendori e miserie del gioco del calcio. Lì c’era tutta la storia e l’essenza dello sport più bello del mondo, che nessun tecnocrate riuscirà a rovinare, perché, da qualche zolla, su qualche campo polveroso, verrà fuori il campione tracagnotto capace di stupire con un tunnel, una rete impossibile.
Maradona, Varela, Barbosa, Garrincha e Baggio : un sorriso dentro al pianto
Eduardo pensava, ovviamente, a Diego Armando Maradona, da lui sempre elogiato e difeso. Ma in quelle pagine possiamo trovare l’orgoglio di Obdulio Varela, il capitano dell’Uruguay, che, nel 1950, al Maracanã di Rio de Janeiro, fece piangere, nel match decisivo per la Coppa Rimet, il Brasile dell’eroe tragico Moacyr Barbosa; la finta sbilenca di Mané Garrincha, allegria della gente; il dribbling fantasioso e imprevedibile di Roberto Baggio. Una frase di quel libro ripeto sempre in occasione dei miei incontri: “Una giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: Come spiegherebbe a un bambino che cos’è la felicità? Non glielo spiegherei affatto, rispose: gli darei un pallone per farlo giocare”.
Galeano non smetteva mai, tra un romanzo e una poesia, di occuparsi di football. Tifava per il Nacional di Montevideo e si è sentito campione soltanto quando “sognava” di esserlo, prima del risveglio. Ma ogni occasione era buona per celebrare quel gol da urlo, quella prodezza che sembrava impossibile, quel giovane capace, al debutto, di segnare una rete memorabile, il vecchio asso ancora in grado di impartire una lezione ai presuntuosi. Non gli piaceva la modernità. Quell’odore del prato verde che sembrava ormai svanito. Poi, la magia rinasceva – malgrado tutto – con il fischio d’inizio, quando ritornava l’epifania, la possibilità di una rinnovata bellezza.
Caro Eduardo, grazie per averci illuminato l’esistenza.





