sabato, Settembre 13, 2025
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Quando il calcio era poesia: il volo interrotto di Meroni

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l ricordo comincia con la cicatrice, come ci insegnò Osvaldo Soriano. No, non ora. Non mi svegliare, mamma. Non ancora. Non voglio ancora sapere. In questa mattina del 16 ottobre 1967. In questa mattina che in molti non dimenticheremo. Hai il giornale in mano, hai aperto piano la porta della mia camera, stai per svegliarmi per dirmi di Gigi. Per dirmi della Farfalla Granata e delle sue ali spezzate. Ma tu aspetta, mamma, dammi ancora qualche minuto. Voglio pensarlo vivo, pochi minuti prima di uscire dal bar Zambon e attraversare, con il compagno e amico Fabrizio Poletti, corso Re Umberto a Torino. Gigi Meroni.

È domenica sera, il Toro ha battuto la Sampdoria, la Farfalla ha dato spettacolo, come sempre. Un’ala destra. Un numero sette. Uno come Garrincha, uno come Best, come gli scrittori Pier Paolo Pasolini e Antonio Tabucchi, sono loro i poeti del calcio, dribbling e fantasia, prima ancora del Maggio Francese, l’abbagliante “immaginazione al potere” sul prato verde. Lo adoriamo anche noi della Juventus: perché giocatori così fanno sognare. E li vuoi, poi, imitare sul campo, con gli amici, nei cortili, in piazza, e ti metti a dribblare gli alberi e le panchine e i cassonetti dell’immondizia e i gatti che si rincorrono e le signore con le buste della spesa.

Portavo i capelli come Gigi Meroni

Mamma aspetta, non dirmi niente. Quante volte ti ho parlato di Meroni, ricordi? Non ne potevi più. Quel tipo strano, che sembrava per davvero uno dei Beatles, un beatnik, come si diceva allora, un ribelle, di quelli buoni, di quelli che, con la loro arte, stavano per farla per davvero la rivoluzione. Anticonformisti, stravaganti, irrazionali. Come quel ragazzino, che suonava la chitarra e l’armonica e cantava “Blowin’ in the Wind”: Bob Dylan, che poi avrebbe addirittura vinto il Premio Nobel per la Letteratura. Chi lo avrebbe immaginato, mamma, a quei tempi là. Avevo dodici anni e anch’io portavo i capelli lunghi come Gigi.

Lui era un tipo particolare in tutto, un personaggio per davvero. Autentico. Calzettoni abbassati, barba incolta, con quel pallone tra i piedi improvvisava dei versi illuminanti e strampalati che avrebbero suscitato l’invidia di Ginsberg, uno dei profeti della Beat Generation… Era un calciatore affermato, ma non gliene fregava niente. Viveva da artista, aveva rifiutato un bellissimo alloggio per vivere in una mansarda, senza riscaldamento. D’inverno si accontentava di una piccola stufa. Ma gli bastava, perché piaceva anche alla sua ragazza, a Cristiana, che lavorava al luna park ed era sposata. Apriti cielo! I benpensanti proprio non lo sopportavano quel tipo che prendeva a calci il pallone e non voleva restare nel recinto delle regole.

I dipinti, gli abiti, la gallina al guinzaglio

In piena notte si alzava per dipingere. Quadri stupendi e inquietanti, dove si riflettevano la sua anima e quella di Cristiana. Che coppia, da fare invidia al cielo. Sempre sorridenti, sempre felici, sembravano due ragazzini. Una storia come quelle dei romanzi di Liala, che piacevano tanto a mia nonna Rosina, che abitava alla Casa dei Ferrovieri a Verona, la mia Itaca salgariana. No, mamma, aspetta un momento ancora, ti prego, non avere fretta, e non importa se stai piangendo perché anche a te piaceva Meroni.

Tieni ancora stretto il giornale e lascia la porta socchiusa. Meroni disegnava gli abiti che poi avrebbe indossato, viveva sulle nuvole, tutti gli volevo bene, perché lui aveva parole buone per tutti, pure l’allenatore Nereo Rocco, che era un triestino ruvido e burbero, ma sapeva leggere nel cuore delle persone, gli perdonava tutto. Anche perché in campo era il primo, la Farfalla Granata, a dare l’esempio. Era un burlone. Gli piaceva, ad esempio, girare sotto i portici antichi di Torino, in via Roma, in via Po, con una gallina al guinzaglio. Per farsi beffa delle altezzose madamine con i barboncini.

L’autografo di Meroni al Filadelfia

Ti rendi conto, mamma? Una gallina al guinzaglio! Immagina lo stupore della gente. Una mattina andai al campo Filadelfia, dove si allenava il Toro. Il campo degli Eroi di Superga. Gli chiesi l’autografo. Lui mi accarezzò la testa e scrisse: “A Darwin, con simpatia, Gigi Meroni”.

Il 9 ottobre, sempre di quel 1967, era stato assassinato, in terra boliviana, Ernesto Che Guevara. Io ancora non conoscevo la sua grandezza. Non avevo abbracciato il suo mito. Il Che e Gigi, due che sognavano semplicemente la libertà. Sì, adesso puoi svegliarmi mamma. La notizia è in prima pagina. Scoppio a piangere, e tu ti chini su di me, mi dai un bacio sulla fronte, cerchi di consolarmi. Gigi Meroni è morto, attraversando corso Re Umberto. Investito da un’auto, guidata da un giovane tifoso del Toro che aveva il poster della Farfalla appeso nella sua cameretta: Tilli Romero, che sarebbe diventato presidente granata nel 2000. E Meroni era anche il cognome del pilota dell’aereo del Grande Torino che il 4 maggio del 1949 andò a schiantarsi contro la Basilica, lassù in alto.

Non voglio leggere. Non voglio alzarmi, non voglio fare colazione, andare a scuola, vedere i miei amici. Voglio ritornare a dormire, pensare a un brutto sogno. Gigi giocherà nel derby, contro la mia Juve, domenica prossima. E ci farà impazzire, anche se poi vinceremo noi… Andai allo stadio Comunale, quella domenica, in curva Filadelfia, quella dei sostenitori bianconeri, con la mia bandiera listata a lutto. Ricordo soltanto il rumore della lacrime. Il Toro vinse 4-0, Nestor Combin, un fratello per Gigi, realizzò una tripletta, il quarto gol lo fece Alberto Carelli, che scese in campo con la maglia numero sette della Farfalla. Alberto Carelli è un mio amico. E quando lo abbraccio, mi sembra di abbracciare Gigi.

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