L’annuncio dell’accordo tra Carlo Ancelotti e la Cbf, la Confederação Brasileira de Futebol, l’ufficializzazione insomma dell’ingaggio del tecnico italiano quale selezionatore della nazionale del Brasile, a partire dal prossimo 26 maggio, non è stata una notizia sorprendente – dal momento che già due anni fa, nel luglio 2023, il presidente federale Ednaldo Rodrigues aveva di fatto comunicato alla stampa la medesima notizia per il 2024, salvo poi vedere Ancelotti rinnovare con il Real Madrid.
Non è sorprendente, si diceva, e del resto qui non si andrà a ripetere ciò che, sostanzialmente, è stato scritto ovunque nell’estate 2023 e replicato da alcuni giorni a questa parte, ma ci insegna fondamentalmente tre cose che, almeno in linea teorica, sarebbe utile tenere sempre a mente, e vanno ben oltre il calcio.
Ancelotti e il patrimonio di credibilità
La prima è che una carriera e una storia professionale non la raccontano gli influencer, gli hater e nemmeno, al contrario, gli agiografi, ma il riconoscimento arriva unico ed effettivo arriva da chi, scegliendo una persona, decide di puntare su di essa. Poi, intendiamoci, le decisioni possono risultare efficaci o meno, non è questo il punto: è il patrimonio di credibilità che un professionista si è creato nel proprio ambiente quello che fa la differenza.
Non sono le mode, è il modo. Di Ancelotti, da qualche anno, qualcuno racconta che è un bollito, che non si evolve, che non è più adatto a certi contesti, che ha avuto soprattutto fortuna. A breve siederà sulla panchina della nazionale più ambita del globo, che dal 2002 non vince un Mondiale – e non è detto che lo vinca con lui, sia chiaro – e ha deciso di puntare su di lui (uno straniero, uno che selezionatore non lo è stato mai) per riprovarci. Hanno pensato ai fatti, ai risultati e, sicuramente, al modo di gestire uno spogliatoio, non alle chiacchiere.
Il calcio è un gioco a vincere…
La seconda si collega alla prima, e ricorda a tutti che il calcio è un gioco a vincere e che medaglie e coppe non le portano i giudizi o le valutazioni delle commissioni. Il che non significa che solo chi vince è capace, tutt’altro, né è un inno al risultatismo (figuriamoci: non tutti hanno le stesse opportunità, e anche questo è un fattore), però si tratta di un giusto riconoscimento al merito, quando spesso invece si nasconde una narrazione tossica, e non infrequentemente invidiosa, dei successi di chi non ci sta a genio.
Ancelotti, un tecnico sempre in movimento
La terza è che non c’è un tempo sbagliato per uscire dalla comfort zone. Carlo Ancelotti lo ha fatto a cinquant’anni, nel 2009, andando in Inghilterra, e da allora ha costruito una seconda vita lontano dall’Italia. Non è stato il primo, nemmeno tra gli allenatori italiani, e non sarà l’ultimo, però attenzione: a cinquant’anni e oltre imparare una lingua – più lingue: inglese, spagnolo, livelli più che accettabili di francese e anche di tedesco – non è così scontato, e così pure adattarsi a un altro Paese (con tradizioni e gusti calcistici diversi, giornalisti diversi, tifosi diversi), per quanto in condizioni di assoluto privilegio.
Significa accettare di mettersi in gioco nonostante si sia già vinto sostanzialmente tutto (Ancelotti lo aveva fatto con il Milan), significa essere aperti ai cambiamenti, poi può andare bene, male, così così. Ogni tanto, insomma, la domanda che uno dovrebbe porsi, a volte, non è “perché?”, ma “perché no?”. Intanto oggi la figura del tecnico è realmente una delle poche figure cosmopolite del calcio italiano, una figura globale che vive tra la nazione in cui allena, l’Italia e il Canada, e probabilmente la Seleçao era davvero l’unica cosa che gli mancava. Non una nazionale, ma la nazionale più evocativa di tutte. Quella contro la quale, peraltro in una versione non esattamente spumeggiante e debordante di talento, perse il Mondiale da vice di Sacchi, sulla panchina dell’Italia. Dove? Negli Stati Uniti…